Fallito il primo tentativo. Fallito anche il secondo. L’ex giudice della Corte di cassazione, Antonio Esposito, non ha diritto al risarcimento del danno, quantificato in due milioni di euro, per la famosa “intervista manipolata” che rilasciò al Mattino di Napoli nell’agosto del 2013 all’indomani della condanna di Silvio Berlusconi da parte della sezione feriale dell’alta corte per frode fiscale, la stessa che ne decretò l’espulsione successiva dalla vita politica. O che, almeno, vi tentò.
I due milioni di euro Antonio Esposito li ha chiesti, in prima e seconda battuta dinanzi al tribunale civile di Napoli, al quotidiano di Caltagirone, all’allora direttore responsabile Alessandro Barbano e al giornalista Antonio Manzo. La VI sezione civile della Corte d’appello (presidente Antonio Quaranta, consiglieri Erminia Baldini e Giorgio Sensale) il 18 marzo scorso ha respinto il ricorso presentato dall’ex alto magistrato contro la decisione di primo grado assunta nel 2017.
Il racconto del cronista del Mattino a Tempi
Non v’è chi non ricordi, specie tra gli addetti ai lavori, la vicenda e l’ambaradan che ne conseguì: i lettori di Tempi, tra l’altro, ricorderanno pure l’intervista che il giornalista Manzo rilasciò a questo giornale alla fine dell’agosto del 2013, alcuni passaggi della quale sono stati trascritti sia dallo stesso Esposito, al fine di corroborare le proprie pretese risarcitorie, sia, per ragioni chiaramente opposte, dalla difesa del Mattino, di Barbano e di Manzo.
Breve (si fa per dire) sintesi della storia. Era il 6 agosto 2013, i media di tutto il mondo, o quasi, attendevano il pronunciamento della Corte di cassazione, l’ultimo miglio a completamento della più estesa e pervasiva battuta di caccia all’uomo – il Cavaliere, anzi ex – che la storia politico-giudiziaria dell’Italia ricordi. Trattandosi di diritto civile, la questione è oggettivamente più articolata e complessa di un “banale” processo penale, i ragionamenti delle parti sono complicati, c’è necessità di masticare un po’ di diritto in più, almeno nelle sue strutture portanti.
Nessuna alterazione né diffamazione
Qui si trattava di decidere questo: l’intervista rilasciata al Mattino dopo la sentenza di condanna di Berlusconi e soci (la frode fiscale per i diritti televisivi) fu il frutto di una manipolazione? Se sì, in che misura ad Esposito spettava il risarcimento del danno, visto che la lamentazione principale si condensava nel fatto che vi fosse stata una interpolazione proditoria di frasi asseritamente (da Esposito) mai dette al giornalista? Per i giudici di primo e secondo grado, sebbene l’intervista fosse stata «ardita e spregiudicata» (testuale) con qualche punta di «slealtà» da parte di Manzo nei confronti di Esposito (i due si conoscevano da almeno 40 anni) ma non per questo meno fondata, non vi fu alterazione di alcunché con conseguente contenuto diffamatorio, peraltro non accertato in altra sede.
Ma come andarono le cose dopo la lettura del dispositivo in diretta tv? Dagli atti si apprende che fu l’ex magistrato, un’ora circa dopo l’exploit televisivo, a chiamare il giornalista. I due parlano in tono confidenziale, spesso in dialetto essendo entrambi campani, il giornalista registra per opportuna prudenza. L’argomento non poteva certo essere diretto sul genere «dimmi perché l’avete condannato», ma a cerchi concentrici partendo dall’universale si giunse poi al particolare delle motivazioni di condanna. «Berlusconi condannato perché sapeva e non perché non poteva non sapere», fu il titolo a 9 colonne del Mattino.
Quella domanda “aggiunta”
La cosa più naturale che accadesse fu che tutti i media, italiani e non, ripresero la notizia rilanciandola in ogni dove: un giudice, peraltro di Cassazione, che rivela a un giornalista le motivazioni di una sentenza prima ancora di pubblicarla non è solo uno scoop quasi obbligato, è “la” notizia con tutte le lettere maiuscole del caso. Il punto è che, secondo Esposito ma non secondo i suoi ex colleghi, Manzo avrebbe inserito una domanda nell’intervista che non gli era mai stata rivolta, derivandogli da ciò un gigantesco nocumento personale e professionale, la propria reputazione sarebbe stata compromessa, ergo, sganciate due milioni di euro a titolo di riparazione.
Le due corti civili non sono state dello stesso avviso, anzi nel secondo grado hanno addirittura caricato Esposito di un ulteriore aggravio addebitandogli altre spese processuali. Come nel primo anche nel secondo grado – per tentare di farla breve – le argomentazioni giuridiche dei magistrati sono state piuttosto raffinate, non essendoci peraltro giurisprudenza di riferimento che li aiutasse a muoversi in questo ambito, oggettivamente complicato.
La controprova nelle motivazioni del verdetto
Sorvolando sul lungo ragionamento sulla responsabilità più o meno aquiliana, sulla violazione del principio del “neminem laedere” ed altro ancora, il fatto che Manzo avesse inserito nell’intervista una domanda che non compariva nello scritto visionato prima della pubblicazione su richiesta dello stesso Esposito («Se il Cav non è stato condannato perché non poteva non sapere, allora qual è stata la ragione?») inserendola a fronte di una frase che, in realtà, lo diceva comunque, anche se quella domanda non fosse mai stata anteposta, non muove di un millimetro il concetto di fondo.
E questo i giudici di Napoli lo hanno ravvisato, tra altre cose, proprio nelle motivazioni della sentenza di condanna per Berlusconi, allorquando il collegio presieduto da Esposito ebbe a scrivere esattamente la stessa cosa (si scrisse in sentenza che il Cav andava condannato perché i suoi collaboratori lo informavano di tutto, cosa che Esposito ebbe a riferire a Manzo): segno della irrilevanza dell’operazione di “editing” fatta dal giornale, nel senso che v’era evidente concordanza tra quanto dichiarato nell’intervista e quanto scritto nelle motivazioni.
Un caso di studio deontologico
Ci sono, poi, in questa sentenza civile di “assoluzione” di Manzo e Barbano, diverse puntate su nessi di causalità, confini del diritto di cronaca e di pensiero del giornalista, si ripercorre il procedimento disciplinare del Csm contro Esposito (conclusosi in maniera favorevole a lui), insomma c’è materia per approfondire gli ambiti professionali e deontologici dei giornalisti. Ma pure per i magistrati, volendo. Del resto, tra diversi e preziosi passaggi tecnico-giuridici e tra i diversi brocardi assunti dal diritto romano, ne è mancato uno fondamentale, estraneo alla giurisprudenza sebbene adatto al caso: Esposito non fu memore del principio “Nisi caste saltem caute” (Se non riesci ad essere casto sii almeno cauto), il che sancì la calata del sipario su tutta la variopinta faccenda.