
Nicola Abbatangelo: «Il cinema deve diventare evento»

Articolo tratto dal numero di agosto 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Nel cinema italiano c’è una grossa novità. Un musical in grande stile – verrebbe da dire: con dimensioni hollywoodiane – che promette di stravolgere piacevolmente il panorama e che tutti, critici e addetti ai lavori, reputano essere la cosa più interessante in arrivo in sala nella stagione 2020-2021, maledetto Covid permettendo. Ma forse una rivista come Tempi non lo attenderebbe con tanta aspettativa se non fosse che la mente dell’operazione è un certo Nicola Abbatangelo, «un regista trentenne sconosciuto» (definizione di Repubblica) che ha letteralmente sbalordito questo giornale inventandosi You – Story and Glory of a Masterpiece. L’originalissimo docufilm, presentato a Torino a metà luglio, trascina lo spettatore davanti alla Madonna Sistina di Raffaello facendogli rivivere (e facendo rivivere al fotografo protagonista della storia) l’esperienza che provò il grande Vasilij Grossman contemplando un’unica volta il dipinto a Mosca nel 1955. La fonte principale di You è infatti La Madonna a Treblinka, racconto commosso di quell’incontro con «la giovane madre» firmato dallo stesso autore di Vita e destino. Insomma un’opera che parla di un’opera che parla di un’opera. Non era scontato che un’idea del genere riuscisse, ma chi vedrà il film non resterà deluso (inutile però cercarlo al cinema: vedi box a lato per i dettagli).
Quanto al musical, non è la prima incursione di Abbatangelo in questa categoria: il suo precedente Beauty, piccola perla dickensiana di neanche mezz’ora disponibile su Rai Play, uscito nel 2016, ha ottenuto una serie di riconoscimenti tra cui il premio come miglior corto ad Alice nella città, Festa del cinema di Roma. La grossa novità in arrivo, The Land of Dreams, è però il primo lungometraggio di questo regista molisano emergente, e a portarlo all’attenzione di tutto l’ambiente hanno sicuramente contribuito i nomi grossissimi coinvolti nel progetto, non ultima la Lotus Production di Leone Film Group, società dove Abbatangelo è appena stato nominato direttore creativo della “factory” da cui usciranno nuove produzioni pensate per il mercato internazionale. Chi ha già potuto sbirciare le anteprime o intrufolarsi sul set di questo ambizioso musical ambientato nella New York degli anni Venti è rimasto di stucco. «Non mi autopubblicizzo tanto, anzi, di mio ho la tendenza inconscia a boicottarmi da solo», dice Abbatangelo cominciando con qualche sforzo a rispondere alle domande di Tempi.
You parla di un dipinto capolavoro che lasciò a bocca aperta Grossman e attraverso Grossman lascia a bocca aperta il fotografo Brandon. E su di lei che impatto ha avuto la Madonna Sistina? Che cosa condivide con Grossman e con il protagonista del film?
Quello sguardo. Quello per cui Grossman arriva a dire: ti ho riconosciuta. Quando siamo andati a Dresda per convincere la Gemäldegalerie a lasciarci girare il film e ci siamo trovati finalmente davanti al quadro, beh, quello sguardo è arrivato anche a me. La cosa che mi ha fatto impazzire è il cambio di prospettiva di cui si parla in You: il fatto che la Madonna di Raffaello “viene verso di te”. Una cosa veramente potente, che rende quella donna presente nella storia, immortale, come scrive Grossman.
Per forza di cose il film parla della Madonna, ma non è una celebrazione devota. Piuttosto è la ricerca nel dipinto dell’elemento misterioso che trafisse l’anima di un grande narratore non religioso come Grossman. Avete voluto risuscitare le sue domande.
Assolutamente sì. Anche se le due cose per me non sono slegate, non le separerei. Perché quelle grandi domande che secondo me abbiamo tutti, un giorno incontrano qualcuno. È successo a Grossman come a Leopardi. Per restare nel cinema, è l’intuizione bellissima di Tarkovskij: «Non ti riesce qualcosa, sei stanco e non ce la fai più. E d’un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno – uno sguardo umano – ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice». Quando nel 1955 si trovò davanti alla Madonna Sistina, Grossman non stava esattamente andando a farfalle, stava scrivendo Vita e destino, stava decidendo se dire o no una verità che poteva costargli la vita. Che questo incontro-risposta alle sue domande abbia un fondo religioso mi sembra un compimento, non un accidente.

Lei ha la fissazione della bellezza. Che cosa rende la bellezza tale? E cosa la rende immortale, come la bellezza della Madonna Sistina?
Difficile rispondere. Io stesso mi sono sorpreso a ritrovare la ricerca di questa bellezza in tutti i miei lavori. Non appena una bellezza “di forma”, ma qualcosa che resta. Una bellezza immortale appunto. In You è la bellezza di una presenza che cambia la vita venendoti incontro come una madre.
Lei però non cede alla perenne tentazione del cinema italiano, quella per cui la “grande bellezza” finisce sempre per essere giudicata dalla sua decadenza. Come si resiste?
Direi così: esistono le mode, le scelte “politiche”, e sono aspetti che contano. Adesso in effetti va parecchio di moda il racconto dell’eroe maledetto, la decadenza, il nichilismo. Poi però esiste e conta anche il cuore dell’uomo. Ma non voglio filosofeggiare. Il punto è che in fin dei conti le persone vanno al cinema perché vogliono vedere se stesse, cercano qualcosa che parli a loro come parla a me. E su questo io non riesco a barare, anche se mettersi a nudo può essere molto doloroso. Perché se una cosa è falsa e non funziona per me, non funziona nemmeno in un film. La differenza la fa il motivo per cui si scrive un film: si può fare soltanto per impacchettare un progetto deciso a tavolino, oppure può essere un’autentica ricerca.
E lei cosa cerca?
Sono il primo a doverlo capire, ma posso fare un esempio. Finora ho girato tre opere importanti: la prima, Beauty, è incentrata su una famiglia barricata in casa con qualcosa di irrisolto; la seconda, You, racconta di un fotografo chiuso in un museo con una figura paterna che gli parla; la prossima, The Land of Dreams, mostra due fratelli con poteri particolari che non escono mai di casa. Forse c’entra il fatto che i miei sono divorziati, comunque è chiaro che io sto riscoprendo il concetto di famiglia.
Secondo lei esiste nella vita reale la bellezza immortale di You?
Assolutamente sì. Tutti gli uomini cercano ogni giorno di imitare questa forza creatrice. Nel lavoro, nello scrivere, nel fare quel che fanno. Per un periodo ho lavorato sulla Divina Commedia, e mi è rimasto impresso il concetto del peccato in Dante: amore mal riposto. Cioè: tu quella bellezza la cerchi sempre, e la cerchi disperatamente, poi la vita ti offre delle strade e tu cominci ad amare quella bellezza in base alla strada che hai scoperto. È sempre questo che ci muove.
You sembra proprio tagliato per il cinema: visto in un altro ambiente o con altri mezzi, difficilmente renderebbe come deve.
Sono un regista: qualunque cosa io pensi la penso per il cinema.
Ma la gente al cinema ci va sempre meno, guarda i film sul cellulare. Come crede che recepirà il suo lavoro?
Beh, sul cellulare non si salverebbe nemmeno Dunkirk… O per restare a Christopher Nolan, ha presente la scena di Interstellar in cui le due navicelle devono sincronizzarsi e agganciarsi, con tutto il pathos creato dalla musica di Hans Zimmer che sembra quasi prendersi la regia? Ecco, la guardi a letto sul cellulare, con l’audio del cellulare, e mi dica cosa si salva di quella sequenza incredibile. Che cosa vuole che dica? Le persone sono libere di fare come credono, ma io non posso smettere di pensare musica, immagini, colori al top. Per dire: nella voce di Sylvester McCoy in You abbiamo armonizzato le frequenze basse. Lo spettatore non può saperlo, ma al cinema la differenza arriva. Sul cellulare no.
E secondo lei perché la gente non va più al cinema?
Abbiamo vite frenetiche e sempre meno tempo per noi, e poi si moltiplicano le alternative. Anche se poi l’altro giorno un amico mi ha detto: “Io al cinema non ci vado più, tra il lavoro e tre figli dove le trovo due ore da perdere? Preferisco guardarmi le serie tv”. Gli ho chiesto: “Quale serie segui?”. “Dark”. “E quante puntate hai visto ieri sera?”. “Quattro”. Ma quattro puntate sono tre ore! Capito?
Forse dipende anche da cosa propone il cinema.
Questo è sicuro. Io difendo strenuamente il mondo del cinema, ma mi rendo anche conto che è un mondo che deve farsi intelligente. Deve imparare a creare “l’evento”.
Parliamo di Beauty, il suo primo musical. Domanda da ignorante: cosa vuol dire che è «il primo cortometraggio italiano mixato con la tecnica innovativa Dolby Atmos»?
Vuol dire che il segnale audio ti avvolge completamente, il suono della pioggia arriva dall’alto, se un oggetto si muove da destra a sinistra anche il suo rumore lo fa.
Ancora con queste trovate che ci costringono ad andare al cinema?
Eh ma la Dolby sta lavorando al sistema per godersi Atmos anche a casa.
Anche in questo caso si parla di bellezza, è addirittura il titolo del film. Qui però il tema è la necessità assoluta di condividere la bellezza.
Direi: la necessità di non intrappolarla.
Perché ha sentito l’esigenza di dire questo?
Il punto di partenza è stato un dialogo con un mio amico. Eravamo alle Tremiti, parlavamo forse di Dante, non sono sicuro. A un certo punto mi disse: attenzione, la menzogna non è altro che “la verità meno uno”. Mi si stampò in testa. Se penso alla vita di tutti i giorni, è esattamente così. Di qui l’idea di una storia che si svolge in un mondo dove tutto sembra a posto, ma è in bianco e nero. E gli abitanti cantano: qui è tutto bello, eppure ci manca qualcosa, e non sappiamo cosa. Questo qualcosa che manca è appunto il colore. L’idea di Beauty è nata così.
Colpisce nei suoi film l’ambizione di parlare di cose grandi, alte, tra l’altro utilizzando un linguaggio per tutti, senza scene gratuite o dettate da “esigenze di botteghino”. Non ce ne sono tanti come lei, o sbaglio?
Lasciamo stare, l’autocelebrazione non fa per me. Quanto alle scene gratuite, beh, non sono buone per nessuno: non vanno tecnicamente, il pubblico non le vuole. Tutto dipende da quanto tempo si ha per riflettere.
E da quanta libertà.
Sì ma nel senso di libertà personale, perché io non ho mai visto un regista proporre qualcosa di vero e trovare un muro da parte della produzione. Ci sono ovviamente argomenti scomodi, altri che si reputano “non fare più botteghino”, ma nessuno ama le cose gratuite. Se appaiono gratuite è perché non sono riuscite.
Lei ha coraggio anche sulla scelta dei generi. Perché i musical? Non piacciono a tutti.
Così si dice, ma in realtà secondo me il musical ce l’abbiamo dentro le ossa, anche se non lo ammettiamo. Da sempre la lirica ci racconta grandi storie con la musica. Poi abbiamo la canzone popolare… Il musical non è così lontano da noi, anzi. Il problema – culturale – è solo quello di far sedere le persone. Poi di fronte a uno spettacolo come Les Misérables, un popolo che fa la rivoluzione e muore sulle barricate cantando, è evidente che non esiste metodo artistico più alto.
Come ci è arrivato al musical?
Per storia personale: non ho sempre avuto l’idea di fare il regista. I miei avevano un’agenzia di spettacolo e io ho passato l’infanzia nel backstage, a vedere le facce degli spettatori come si emozionavano, come buttavano la maschera di tutti i giorni davanti a un racconto, come si organizza uno spettacolo, come si fa musica alla grande. E con Beauty abbiamo dimostrato che anche in Italia possiamo fare progetti di questo tipo, non per forza con budget hollywoodiani. Questa è stata la fortuna del film.
Scelta particolare anche per You: un docufilm. Tra l’altro può sembrare riduttivo chiamarlo così.
Mah, sono categorie tecniche da esperti. Avrò visto mia madre piangere davanti a Titanic centoventi volte, chiamarlo drammatico o avventura non cambierebbe nulla. Piuttosto, il format di You viene dal tentativo, con lo sceneggiatore Giovanni Maddalena, di trovare un modo nuovo di raccontare l’arte oggi. Secondo me dietro ogni opera c’è un artista che cerca, pone domande e dà risposte. La scommessa è restituire quel significato lì. Ho ricevuto le reazioni più disparate su You, ma tutti concordano sul fatto che il film fa venire voglia di vedere il dipinto di Raffaello e leggere Grossman. Perfetto.
E veniamo a The Land of Dreams. Le piace che lo spaccino per «il La La Land italiano»?
Ho amato molto La La Land, vale la pena di vederlo anche solo per la sequenza finale. Non perderei d’occhio però neanche The Greatest Showman, forse meno celebrato, ma le sue canzoni sono ovunque, è stato l’album più venduto del 2018. Ho visto spettacoli ispirati a quel musical anche nei piccoli villaggi turistici. Sono cose che fanno riflettere.
Dopo che The Land of Dreams è stato presentato da Rai Cinema e 01 Distribution fra i titoli della prossima stagione 2020-2021, hanno scritto: è «il film più promettente» tra quelli in uscita; è «la scommessa produttiva del cinema italiano del 2020»…
In questo momento sto al quinto piano, se continua mi lancio dalla finestra.
Ancora: «Budget superiore ai 6 milioni di euro». Hanno scritto addirittura che Abbatangelo «sfida i colossal hollywoodiani». Le buttano addosso una bella responsabilità.
Esatto, me la buttano addosso.
Tremano le gambe?
Ma certo, ovvio. Tremano sempre le gambe, mai visto un regista ultrasicuro di un progetto. Questo poi è un lavoro mastodontico, con tante pretese e quindi tanta responsabilità. Non solo per la mia faccia, ma per le tante persone che hanno lavorato con me e hanno dato davvero tantissimo, gli attori, la produzione che ha rischiato grosso… E poi dentro c’è il grido di tutta una serie di talenti italiani che vogliono provare a spingersi in qualcosa di nuovo, quindi la riuscita di questo film può fare un gran bene a tutto il settore. Tremano eccome le gambe.
È un budget alto per gli standard del cinema italiano.
Soprattutto per un’opera prima.
Appunto. Eppure c’è dentro: Rai Cinema, Leone Film Group, un produttore del calibro Marco Belardi… Come ha fatto a smuovere tutto questo mondo?
Ho avuto culo! (ride, ndr). No, guardi, ora lo dico a rischio di sembrare altezzoso: io credo veramente che le persone abbiano un cuore. Nessuno credeva in Beauty perché “i corti non se li fila nessuno” e “il musical non va”. Poi quando ho cominciato a farlo vedere tutti dicevano: finalmente una storia che parla al cuore! Non ho dovuto fare altro, per questo ho avuto fortuna. E poi, appunto, era appena uscito La La Land e tutti si guardavano intorno chiedendosi chi potesse affrontare il genere in Italia.
Lei non sembra un regista “italiano”. Chi sono i suoi maestri? Massimo tre nomi.
Non saprei. Mi piace molto Wes Anderson, Nolan tantissimo, mi piace la maniacalità di Charlie Chaplin: è arrivato a 1.062 take per una scena, e le assicuro che di solito al quindicesimo hai già l’attore sul punto di spaccarti la faccia. Però ripeto, alla regia ci sono arrivato dopo, sono stato buttato dentro lo spettacolo, mi sono nutrito della bellezza della musica, della parola nel racconto teatrale. Non so dire se ho imparato da Anderson o se Anderson mi piace perché ho una formazione teatrale.
Idem per il cast. In The Land of Dreams ci sono diversi attori italiani, ma tutti i critici notano subito che lei ha uno «sguardo internazionale».
E quale sarebbe lo sguardo internazionale? Credo semplicemente che la cosa che conti di più sia la storia e che debba essere lei a comandare tutte le scelte. Ad esempio, per Beauty avevo bisogno della Londra dickensiana. Insomma, ricorda Stick, il protagonista, la scena in cui arriva a casa del padre dopo anni di allontanamento? Ebbene, Simon Paisley Day, l’attore che lo interpreta, è inglese: ha una regalità, una teatralità tale che non ha bisogno di dire o fare nulla per essere perfetto.
Anche The Land of Dreams è in inglese come Beauty?
Sì, ma la parte parlata è doppiata in italiano, come Les Misérables.
Insomma, il suo orizzonte è l’Italia o no?
Il mio orizzonte è distruggere questa sua domanda. Non è che io mi sveglio la mattina e decido di girare in modo “non italiano”. Mi viene naturale. Altra cosa, più importante ancora: non credo che Mel Gibson si sia posto il problema se girare Braveheart per gli scozzesi o per i non scozzesi. Se ho per le mani una storia bella, desidero che tutti la conoscano, ma proprio tutti. Il fatto che sia girata in inglese aiuta. Che abbia un cast internazionale, idem.
Ha detto altrove che le piace circondarsi di «gente molto brava (anche più di me)» e che dal set lei esce «arricchito». Quindi il cinema è un mondo di persone di spessore professionale e umano, non sono tutti svalvolati e scavezzacollo?
Beh, innanzitutto le cose vanno perfettamente insieme, come ci ha ampiamente dimostrato non solo il cinema, ma l’arte in genere. E poi un film è una cosa veramente, ma veramente complicata. Vivi in una bolla per quattro mesi h24 accanto a questa gente con livelli di stress altissimi: per forza le maschere crollano e le persone vengono allo scoperto. È faticoso ma bellissimo, è l’occasione di conoscere davvero molta gente, dalla comparsa che è lì per sbarcare il lunario al costumista che ci mette tutta l’anima per sistemare un dettaglio di cui magari mi accorgerò solo io. Bisogna circondarsi di gente più brava, sì, perché in questo mondo il pericolo dei registi è essere assecondati da tutti. Ma un’opera del genere è talmente grande che è letteralmente impossibile avere tutto sotto controllo. Può succedere qualunque cosa su un set.
Foto Moolmore Films
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