Nessuna concessione ai fan della surrogata, ecco cosa dice la sentenza della Cassazione
Per ragioni diverse – quando non addirittura opposte – molta stampa ha salutato come “storica” la sentenza n. 38162 del 2022, pubblicata lo scorso 30 dicembre, con la quale la Cassazione a Sezioni Unite ha respinto la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita di un bambino nato da una madre surrogata per iniziativa di due uomini. C’è chi sottolinea la ferma condanna di tale pratica da parte dei giudici, chi invece afferma che hanno dato «prova di avvicinarsi alla questione della gestazione per altri con grande rispetto e delicatezza». C’è chi festeggia lo “sdoganamento” della stepchild adoption (scrive il Corriere «d’ora in poi i figli delle coppie gay nati all’estero con la surrogata dovranno sempre essere riconosciuti») e chi, al contrario, descrive la sentenza come una sconfitta per quanti propugnano la depenalizzazione della pratica almeno nei casi della maternità surrogata cosiddetta “solidale” o “altruistica” («uno stop, nel rigoroso rispetto della norma, per le tante coppie gay che puntavano a un inizio di “normalizzazione”», scrive Repubblica). Ma cosa hanno deciso davvero i giudici? Tempi lo ha chiesto al professor Emanuele Bilotti, ordinario di diritto privato presso l’Università Europea di Roma.
Professor Bilotti, ci aiuti a fare ordine: cosa dice la sentenza?
La sentenza conferma e chiarisce quanto già affermato, sempre dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, in una precedente decisione del 2019. L’atto di nascita o il provvedimento giurisdizionale formato all’estero, che accerti lo stato di figlio del nato da madre surrogata anche rispetto al committente privo di legame biologico con esso, è contrario all’ordine pubblico e non può perciò essere trascritto nei registri italiani dello stato civile. Il rapporto in atto tra il nato e il cd. genitore d’intenzione può essere nondimeno formalizzato attraverso il ricorso all’adozione in casi particolari, e dunque non ab initio e in maniera automatica, ma soltanto ex post e a seguito di un concreto accertamento giudiziale della sua conformità al miglior interesse del minore.
E ciò – precisano ora le Sezioni Unite – in ogni caso di ricorso alla pratica degradante della surrogazione di maternità. Si legge infatti nella sentenza che tale pratica offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane “quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti”. Allo stato, dunque, non c’è spazio per un riconoscimento automatico dello status di figlio del nato da madre surrogata rispetto al committente privo di legame biologico con esso, neppure nei casi – invero assai poco realistici… – di maternità surrogata cd. solidale o altruistica.
Spazio che potrebbe venire aperto solo da una legge?
Per la verità almeno le Sezioni Unite sembrerebbero essere dell’avviso che un simile sviluppo non sia consentito neppure al legislatore. Nella sentenza si afferma infatti che «nel nostro sistema costituzionale la dignità ha una dimensione non solo soggettiva, ancorata alla sensibilità, alla percezione e alle aspirazioni del singolo, ma anche oggettiva, riferita al valore originario, non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona». Si tratta di un’affermazione di estremo rilievo anche perché la sentenza non manca di dare atto che esiste «una parte significativa del pensiero giuridico e culturale del nostro Paese, che prende le distanze dall’idea dei valori della persona che si impongono alla persona medesima, anche oltre quanto da questa voluto in maniera assolutamente libera, consapevole, integra e non condizionata». Sembrerebbe allora che per le Sezioni Unite l’orientamento culturale che identifica senza residui dignità ed autodeterminazione non trovi corrispondenza «nel nostro sistema costituzionale».
Perché i giudici sono tornati sul tema?
Il nuovo intervento delle Sezioni Unite si è reso necessario in quanto, poco meno di un anno fa, la prima sezione civile della Corte di cassazione aveva prospettato la necessità di un superamento della decisione delle Sezioni Unite del 2019 a seguito di una successiva sentenza della Corte costituzionale, la sentenza n. 33 del 2021. In effetti, con quest’ultima decisione, il Giudice delle leggi, pur essendosi pronunciato per l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della soluzione interpretativa fatta propria dalle Sezioni Unite del 2019, aveva però ritenuto che il meccanismo dell’adozione in casi particolari non fosse davvero adeguato a garantire il diritto fondamentale del nato alla formalizzazione del rapporto anche col committente privo di legame biologico. E ciò perché la tutela offerta da quel meccanismo, non consentendo la costituzione di rapporti civili tra l’adottato e i parenti dell’adottante e non potendo realizzarsi in mancanza di assenso da parte del genitore (biologico), non presenterebbe quel carattere di “effettività”, che, anche per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, deve invece caratterizzare il rimedio che lo Stato che proibisce il ricorso alla maternità surrogata è comunque tenuto ad apprestare in alternativa alla trascrizione del provvedimento straniero.
La prima sezione aveva dunque ritenuto che la sentenza della Corte costituzionale avesse determinato un “vuoto normativo” nella tutela del diritto fondamentale del nato alla formalizzazione del rapporto genitoriale anche col committente privo di legame biologico: un “vuoto” che, nella perdurante inerzia del legislatore, avrebbe dovuto essere colmato dal giudice, disattivando nel caso concreto l’eccezione di ordine pubblico – e disponendo quindi la trascrizione dell’atto o del provvedimento giudiziale straniero accertante una “genitorialità” puramente intenzionale – laddove un simile esito appaia compatibile con i valori tutelati dal divieto di surrogazione di maternità e con l’aspirazione dello Stato a scoraggiare il cd. turismo procreativo. In particolare, secondo i giudici della prima sezione civile, l’indicata compatibilità vi sarebbe nelle ipotesi in cui il ricorso alla maternità surrogata sia rispettoso di alcune condizioni: il carattere libero e consapevole della scelta della madre surrogata, la sua indipendenza da contropartite economiche, la sua revocabilità fino alla nascita del bambino, la possibilità per la coppia committente di accedere alle procedure di adozione nel rispetto delle prescrizioni di legge, la sussistenza di un contributo genetico alla procreazione da parte di almeno uno dei committenti. Le Sezioni Unite hanno ora respinto con fermezza questa prospettazione.
Per quale motivo? Ci chiarisce il passaggio riguardo all’adozione da parte del partner del genitore biologico anche se il genitore biologico fosse in disaccordo?
Anzitutto perché gli aspetti problematici rilevati dalla Corte costituzionale con riferimento alla disciplina dell’adozione in casi particolari possono ormai ritenersi superati. In primo luogo, infatti, una successiva sentenza della stessa Corte costituzionale – la n. 79 del 2022 – ha dichiarato l’illegittimità delle norme che, nelle adozioni in casi particolari, impedivano l’instaurazione di rapporti civili tra l’adottato e i parenti dell’adottante. Quanto poi alla regola che condiziona l’adozione in casi particolari all’assenso del genitore biologico, le Sezioni Unite ritengono che tale regola possa – e debba – essere oggetto di un’interpretazione costituzionalmente conforme, in base alla quale «il rifiuto dell’assenso all’adozione, da parte del genitore biologico, appare ragionevole soltanto se espresso nell’interesse del minore, ossia quando non si sia realizzato tra quest’ultimo ed il genitore d’intenzione quel legame esistenziale la cui tutela costituisce il presupposto dell’adozione».
È bene comunque osservare che, nei confronti della prospettazione della prima sezione civile, le Sezioni Unite muovono anche una critica radicale di ordine metodologico. A dire delle Sezioni Unite, infatti, la prima sezione civile, leggendo erroneamente una sentenza di inammissibilità come se fosse una sentenza di illegittimità costituzionale, aveva ritenuto che l’intervento della Corte costituzionale avesse determinato un “vuoto normativo” nella tutela del nato da madre surrogata e che, nell’inerzia del legislatore, questo “vuoto” dovesse essere colmato dal giudice. Ebbene, a quest’idea le Sezioni Unite oppongono ora con grande chiarezza che «la valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del giudice». E ciò semplicemente perché – l’affermazione delle Sezioni Unite è perentoria – «la giurisprudenza non è fonte del diritto». Il ruolo del giudice – si legge ancora nella sentenza – è «costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore»: il giudice è «organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, nel quadro dell’equilibrio dei valori già indicato con chiarezza della Corte costituzionale». E ciò anche in una materia delicata come il diritto della famiglia: una materia che – così si legge sempre nella sentenza delle Sezioni Unite – «nel mentre riflette, come uno specchio, lo stato dell’evoluzione delle relazioni familiari nel contesto sociale, tuttavia non può prescindere dal sistema, affidato anche alle cure del legislatore».
Ma perché l’ordinamento italiano non dovrebbe riconoscere un risultato che è pienamente legittimo nello Stato estero in cui si è fatto ricorso alla pratica della surrogazione?
Al riguardo mi sembrano molto rilevanti le notazioni che le Sezioni Unite riservano alla funzione della clausola dell’ordine pubblico internazionale. Nella sentenza non si omette certo di ricordare come l’ordine pubblico internazionale abbia ormai assunto anche un’importante «funzione promozionale, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, anche in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, nonché la loro armonizzazione fra gli ordinamenti». Le Sezioni Unite non mancano però di valorizzare opportunamente anche la «funzione originaria dell’ordine pubblico internazionale»: il suo essere un «meccanismo di salvaguardia dell’armonia interna dell’ordinamento giuridico statale di fronte all’ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, di argine contro la compromissione dei valori irrinunciabili dell’ordinamento del foro». In considerazione di questa funzione “originaria” dell’ordine pubblico internazionale viene senz’altro esclusa «una apertura del tutto incondizionata degli ordinamenti giuridici statali al coordinamento con gli altri ordinamenti, tale da permettere senza limiti l’attribuzione di effetti a provvedimenti giurisdizionali stranieri, rinunciando ad un qualsiasi controllo in ordine alla loro compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico del foro»: «L’apertura all’altro – affermano categoricamente le Sezioni Unite – non è perdita del sé. E il sé di un ordinamento – la sua identità, appunto – è quanto risulta tanto dalla Costituzione quanto dalle fondamentali e consolidate opzioni che tracciano le grandi linee della legislazione».
E non ci sono “pressioni” della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel senso di un riconoscimento automatico dei rapporti di filiazione accertati in un Paese che consente il ricorso alla maternità surrogata?
No. Certo, come ho già avuto modo di ricordare, per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la formalizzazione del rapporto in atto tra il nato da madre surrogata e il committente privo di legame biologico con esso è oggetto di un diritto fondamentale. Lo Stato membro della Convenzione non potrebbe perciò rifiutare questa formalizzazione. Ma la Corte di Strasburgo ha lasciato al margine di apprezzamento del singolo Stato la scelta su come essa debba avvenire, contemplando espressamente anche la possibilità di una formalizzazione ex post e a seguito di un accertamento giudiziale concreto dell’interesse del minore, quale si realizza appunto attraverso una procedura adottiva. In tal caso la Corte di Strasburgo richiede solo che il risultato si realizzi comunque in una maniera agevole ed effettiva. In ragione di ciò, come si è detto, la Corte costituzionale, nella sentenza del 2021, aveva rilevato delle criticità nella disciplina dell’adozione in casi particolari. Ma si è già detto anche per quali ragioni per le Sezioni Unite certe criticità debbono ormai ritenersi superate. In ogni caso le Sezioni Unite chiariscono ora che anche per la Corte costituzionale “il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato a uno strumento di carattere automatico”. E ciò proprio in vista della realizzazione del miglior interesse del minore. La soluzione dello spinoso problema della condizione giuridica del nato a seguito della violazione del divieto di maternità surrogata deve allora passare necessariamente per “una valutazione di concretezza”: “una diversa soluzione – affermano le Sezioni Unite – porterebbe a fondare l’acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata”.
La Cassazione non si sostituisce, per lo meno a livello “preventivo”, al legislatore? Mi riferisco al passaggio «Va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner» e seguenti citazioni sulla giurisprudenza che ha più volte respinto la tesi che l’omosessualità sia una condizione in sé ostativa all’assunzione e allo svolgimento dei compiti genitoriali che di fatto apriranno la corsa alle adozioni speciali.
È vero che le Sezioni Unite affermano che «l’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale». Non si tratta però di un’affermazione innovativa. Le Sezioni Unite ricordano infatti che «la giurisprudenza ha in più occasioni chiaramente respinto la tesi che l’omosessualità sia una condizione in sé chiaramente ostativa all’assunzione e allo svolgimento dei compiti genitoriali». Ma il punto non è questo. La vera questione è come la persona umana viene al mondo: se attraverso l’esercizio della sessualità o in virtù del ricorso alle tecniche procreative e, in particolare, di quelle tecniche procreative che sono vietate dall’ordinamento. Ebbene, anche con riferimento a questa alternativa decisiva la sentenza delle Sezioni Unite contiene affermazioni di grande rilievo. Anche sulla scorta di talune recenti pronunce della Corte costituzionale, si dice infatti che «va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo». Di conseguenza – proseguono le Sezioni Unite – «non v’è nel sistema normativo un paradigma genitoriale fondato unicamente sulla volontà degli adulti di essere genitori e destinato a concorrere liberamente con quello naturalistico». Ciò vuol dire che il paradigma della genitorialità naturale è ancora – e deve rimanere – al centro del sistema. La “genitorialità” puramente volontaria rimane un’ipotesi del tutto eccezionale, destinata a venire in considerazione o, nel caso dell’adozione piena, come extrema ratio di tutela di un bambino o di un adolescente che versi in una condizione irreversibile di abbandono morale e materiale, o nelle ipotesi in cui il ricorso alla fecondazione eterologa è consentito al solo fine di risolvere problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana o ancora – ed è l’ulteriore ipotesi di genitorialità volontaria che viene qui in considerazione – nei casi in cui, a seguito del ricorso a una tecnica vietata, si sia nondimeno consolidato una rapporto di cura la cui formalizzazione appaia funzionale alla realizzazione del superiore interesse del minore. Ma in queste ultime ipotesi si tratta pur sempre di una “genitorialità” volontaria che, col meccanismo dell’adozione in casi particolari, si costituisce solo ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, e dunque, come affermano ora anche le Sezioni Unite, in una logica puramente “rimediale”. Non c’è dunque nelle affermazioni delle Sezioni Unite nessuna apertura giurisprudenziale all’adozione dei minori abbandonati da parte di coppie formate da persone dello stesso sesso. La valutazione sui requisiti soggettivi degli adottanti rimane di competenza del legislatore.
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