
Nell’inverno d’Alsazia i nidi vuoti dei migratori sono come promesse mute: torneremo
I campi dell’Alsazia attorno a Strasburgo a metà gennaio hanno il colore della steppa. Zolle spaccate e sterpi gialli e secchi, prosciugati da ogni goccia di linfa. Sotto un cielo d’acciaio nuvole livide promettono neve, forse. Sull’autostrada il traffico del mattino si incolonna verso la città, la massa dei Tir in corsa piega la sterpaglia lungo i guardrail. Sull’orizzonte piatto, non un volo di uccelli. Sono volati lontano. Restano solo i corvi neri a gracchiare irridenti sulla terra nuda.
Anche le chiome degli alberi sono secche come ossa di vecchi. Le più nodose e contorte, così allungate verso l’immensità del cielo, sembrano braccia imploranti. E tutto pare nella campagna morto, e quieto. Anche il vento che spinge il fronte nero delle nuvole soffia piano – un esercito già vittorioso, che procede senza fretta.
Ma cosa sono quelle grosse macchie scure sui rami, appena ondeggianti a un soffio d’aria? L’auto corre e nella prospettiva lontana dei campi fatichi a distinguerle, ti volti a guardarle per essere certa. Sì, sono nidi: nidi vuoti e abbandonati di migratori. Grossi, e ben saldi nonostante la pioggia e il vento dell’inverno. Sapientemente costruiti, tutti uguali nella struttura a piramide rovesciata. Robustamente intrecciati – chi insegna agli uccelli a fare il nido?, ti ha chiesto molti anni fa un bambino.
E in questa mattina di colmo inverno i nidi oscillano piano sui rami scheletriti. Abbandonati, ma pronti: ad accogliere di nuovo le femmine, in primavera, che si rannicchieranno a covare. Promessa muta, quei nidi secchi e vuoti: torneremo.
I tetti delle case all’orizzonte, verso il confine con la Germania, hanno linee aguzze, già più teutoniche che francesi. I capannoni industriali si allineano, bassi, circondati da Tir che arrivano e vanno. Gli autisti in partenza si stringono il bavero, camminano a capo chino verso le piazzole. È il 18 gennaio, fa freddo, la primavera ancora così lontana.
E la gente nelle auto in colonna verso la città imbacuccata nei cappotti ha facce grigie. Si va a chiudersi in un ufficio, e quando si esce è già buio. L’Ills scorre adagio e freddo, pigro come se nella grigia quiete non avesse ragione di affrettarsi. E tutto appare fermo in questa mattina di gennaio. Manca un segno. Nessuna gemma ancora sugli alberi.
Bisogna alzare gli occhi, per vedere. Sulla nudità implorante dei rami stecchiti, quei nidi. Solidi, dondolanti appena all’aria quasi ferma. I nidi aspettano. Fan quasi tenerezza, così fiduciosamente aperti nell’attesa. Rispunterà l’erba, verde chiara. E a camminare nei campi, tendendo l’orecchio, di nuovo il brusio alacre di insetti e piccoli animali sbucati dalle tane. I segni, bisogna cercarli con attenzione nelle giornate più grigie. Lungo le tangenziali, nelle periferie urbane sbiadite. Là in alto, sugli alberi, una promessa: torneremo.
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