
Nell’America che ha paura di tutto, anche un sacchetto di noccioline è un problema

Tra i tanti volti che compongono l’inaffrontabile mosaico chiamato Stati Uniti c’è quello della paura. Della prudenza, della cautela, quella che ora porta a vietare a un ultrasettantenne venditore di noccioline di fare quello che fa dal 1962: lanciare ai clienti il sacchetto con le arachidi. È l’ennesima ferita del politicamente corretto, è la sorte, grottesca, inflitta a Roger Owens, noto a tutti come Peanut Man, l’uomo delle noccioline.
L’iconico lancio del sacchetto di noccioline
Dal 1962, Owens è uno degli elementi che rendono unica la visione di una partita di baseball al Dodger Stadium, lo scenografico – dai posti più alti di scorge, in lontananza, la celebre insegna HOLLYWOOD – stadio che proprio da quell’anno ospita i Los Angeles Dodgers, primatisti seriali di spettatori. Owens iniziò in realtà altrove, al Memorial Coliseum, dove la squadra, appena arrivata da Brooklyn, aveva preso residenza temporanea, e poco alla volta ha dato al mestiere di venditore di noccioline una caratterizzazione creativa, quasi artistica: quella del lancio del sacchetto, di dimensioni corrispondenti a quelle delle patatine.
Il tutto nacque un giorno del 1963 in cui una fila di persone, in attesa di sedersi, gli sbarrava l’accesso allo spettatore che gli aveva fatto un ordine: imperterrito, Owens gli tirò il sacchetto, ricevendo poi alla stessa maniera, aerea, la monetina. Vista la reazione divertita dei presenti, una volta terminata la stagione cominciò ad… allenarsi, a casa, a lanciare sacchetti sul cuscino del letto: lancio diretto ma anche dietro la schiena, tra le gambe, anche due o tre alla volta. Con un accenno ironico al lancio (del baseball) chiamato splitter, chiamò così la procedura – quasi magica – con la quale tirava tre sacchetti alla volta che in volo si separavano (split, appunto) terminando ognuno nelle mani di tre spettatori seduti fianco a fianco.
Basta lanci, e se qualcuno si fa male?
Per questa sua abilità, potenziata nel tempo da un vero e proprio riscaldamento effettuato prima della partita, allo scopo di sciogliere i muscoli – fu anche invitato al celeberrimo spettacolo televisivo condotto da Johnny Carson, per anni il più seguito d’America, ed ebbe anche una parte nel film di Mel Brooks Robin Hood – un uomo in calzamaglia, oltre a ricevere numerosissimi inviti a presenziare a convention, matrimoni, cresime e tutto quello che è occasione speciale. Ora, però, Owens non potrà più lanciare nulla: la concessionaria gastronomica dello stadio, la celebre Levy Restaurants, glielo ha impedito per motivi di sicurezza. Per paura, insomma, che uno spettatore venga colpito (?) e faccia causa.
Owens c’è rimasto malissimo ma non ha polemizzato troppo – con l’aria che tira anche in America meglio tenersi stretto il posto di lavoro – al suo posto lo hanno fatto i tifosi dei Dodgers, e non solo: che hanno sottolineato l’ovvio, cioè che Owens non è un vandalo che si diverte a tirare oggetti in faccia a gente ignara ma a clienti che non solo il lancio se lo aspettano ma lo desiderano pure. Niente da fare, però, per ora, altra pietra tombale sul divertimento leggero, sullo svago, sulla leggerezza, imposto da autorità sempre più orwelliane, sorveglianti, soffocanti (ricorda qualcosa?).
Tutto comincia con McDonald’s
Il divieto di lancio imposto a Owens è peraltro una delle ultime conseguenze di una consuetudine emersa in tutta la sua materialità grottesca con la celebre causa civile intentata alla McDonald’s nel 1992 da Stella Liebeck, un’anziana signora del New Mexico nata peraltro nel 1912 a Norwich, in Inghilterra. Era successo che la Liebeck, preso un bicchierone di caffè dalla finestrella del ristorante ed essendo sull’auto del nipote, non dotata degli ora onnipresenti incavi circolari tra sedili per riporre bicchieri e bottiglie, per mettere lo zucchero aveva tenuto il tazzone tra le ginocchia. Nel sollevare il coperchietto di plastica però si era rovesciata addosso il caffè, che impregnando i fuseaux di cotone l’aveva ustionata gravemente alle cosce, all’inguine e alle natiche.
La Liebeck era rimasta in ospedale per una settimana, ricevendo anche trapianti di pelle e soffrendo poi per anni, fino alla morte avvenuta per cause naturali nel 2004, ma la causa intentata alla McDonald’s per la temperatura eccessiva del caffè ha fatto epoca: i legali della signora scoprirono che secondo norme interne della catena di fast food il caffè prima di essere servito doveva essere tenuto costantemente a non meno di 82°, quasi 10° in più di altri ristoranti, e che a quella temperatura bastavano 15” per produrre ustioni di terzo grado, 15” che scendevano a 3” nel caso di calore a 88°. Vennero fuori altri 700 casi di proteste di clienti per motivi simili, risolti in sede extragiudiziale, e alla fine la giuria riconobbe la McDonald’s colpevole all’80 per cento e la signora al 20, con un risarcimento che dopo vari appelli venne raggiunto, anch’esso, fuori dal tribunale.
Lo scarico di responsabilità
La causa fu vista da molti, non a torto e pur nel rispetto dei danni subìti dalla signora, come l’inizio di una cultura di scarico di responsabilità, di perenne ricerca della falla altrui, specialmente nel caso di aziende in grado di risarcire con grosse somme: da quel momento le avvertenze sui prodotti di qualsiasi tipo, anche ove già esistessero (la McDonald’s stessa sui bicchieroni e sui coperchi suggeriva da anni di fare attenzione alla temperatura del caffè), furono intensificate arrivando al grottesco, pur di mettere al riparo da cause. Ecco perché – tutti casi reali – nelle istruzioni di una moto d’acqua c’è scritto «non usate la luce di un fiammifero o un accendino per controllare il livello di carburante nel serbatoio», o in quelle di una lavatrice «non fate partire il lavaggio se nel cestello c’è una persona», o in quelle di un ferro da stiro si legge «attenzione, non stirate abiti mentre li indossate».
L’America che ha paura di un sacchetto di noccioline
Il divieto a Owens e le sceneggiate per le quali devi ricordare a un adulto che non deve usare un trapano da bricolage per curarsi una carie – c’è pure questa… – sono anche la conseguenza di quel lato americano eccessivamente emotivo, caciarone, teatrale che vediamo rappresentato a molti livelli: lacrime e pianti di fronte a scene di solo moderata emotività, esaltazioni di fenomeni poco più che banali, sensibilità esagerata e patologica davanti a domande o frasi che in epoche più solide non avrebbero suscitato alcuna reazione. Un’America che premia la rinuncia di Simone Biles a competere – argomento di cui ci siamo già occupati – e che ha paura di un sacchetto di noccioline.
Un’America woke, fragile e fifona ma così determinata a limitare le libertà espressive e vitali altrui da aver violentato persino il linguaggio, etichettando sensazioni non positive ma per certi versi costruttive (fastidio, avversione, dissenso) come hate, odio, che di costruttivo non ha nulla anche nei confronti di chi lo prova, spesso danneggiato più di chi lo dovrebbe subire, perché gli toglie lucidità e senno. Usando il tragico hate, non per nulla tradotto letteralmente e strumentalmente in un’Italia che scivola verso la medesima china, questa America che verrebbe disconosciuta dai pionieri, cerca di imporre le proprie idee anche a persone che senza fare male a nessuno vorrebbero solo vivere la propria vita e fare il proprio lavoro, che sia lanciare arachidi o insegnare.
Foto via Pinterest
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