Natura morta con occupazione comunista di rettorato

Di Andrea Venanzoni
27 Marzo 2024
Da Bologna a Roma, il caso del Senato accademico di Torino che stoppa, su richiesta dei collettivi, la collaborazione con gli Atenei israeliani fa scuola. Ma cedere ai jihadisti della sinistra intersezionale e post-coloniale è sempre sbagliato
Sapienza occupazione rettorato collettivi Israele
Il rettorato della Sapienza occupato dai collettivi di sinistra che chiedono lo stop alla collaborazione con gli Atenei israeliani (foto Ansa)

Più osservo le immagini e le scene, spesso variopinte, carnevalesche, surreali e grottesche, più sento fluttuare nell’aria le piagnucolanti rivendicazioni politico-narcisistiche, più mi rendo conto che lo spazio accademico italiano, intessuto di rettorati sotto occupazione dei collettivi e di inaugurazioni dell’anno accademico trasformate in cineforum maoista, è rifluito alle pagine di un capolavoro graffiante e kitsch del postmodernismo americano.

L’inferno però non comincia più nel giardino, come avrebbe scritto il sempre ottimo Jonathan Lethem, ma negli uffici o nell’aula magna agghindata a festa palestinese di un qualunque ateneo italiano.

L’Università di Torino e gli accordi con gli Atenei in Israele

Pynchon, David Foster Wallace, Barthelme, Wright avrebbero avuto difficoltà a immaginarsi la scena di un consesso di accademici di chiarissima fama che discutono, oddio discutono, sotto dettatura di un manipolo di giovanotti dei collettivi, agghindati come jihadisti a un vernissage nell’East Village newyorchese, dove la Striscia di Gaza in genere è un altro genere di striscia e le parole blese del post-colonialismo e delle teorie critiche di genere, e di ogni altra cosa, sono espedienti semantici utili a passare una serata allegra tra foto senza senso e politica ridotta a feticismo spicciolo da cantinetta.

Torino, certo. Dove il Senato accademico, per accontentare i campeggiatori della guerra di liberazione in assenza di un Gillo Pontecorvo che ne potesse filmicamente cantare le lodi, ha decretato, con enorme sprezzo del ridicolo, di voler rescindere i propri legami collaborativi con gli Atenei israeliani, attirandosi giustamente gli strali critici pure di tutta quella parte di sinistra che il cervello ha deciso di lasciarlo acceso.

D’altronde un tempo le accademie erano i luoghi del ragionamento e della formazione della dialettica, di una educazione allo stare al mondo, della analisi intellettuale delle dinamiche storiche e del potere, luoghi di critica, anche accesa, di dissenso: non appare peregrino ricordare come infatti in molte università israeliane si registrino posizioni fortemente e intellettualmente critiche nei confronti dell’azione del governo israeliano. Ma questo non era abbastanza.

Più si cede ai collettivi di sinistra, più pretendono

I jihadisti della sinistra intersezionale e post-coloniale, quelli che devono ripetere ogni due per tre parole a caso come genocidio, apartheid e che non si fanno grandi problemi nell’organizzare conferenze e convegni in cui figurano personaggi riveriti come guest star appartenenti a un passato di terrorismo palestinese, se ne fregano. Non gli basta. E in teoria, e questa sarebbe una importante lezione da tenere a mente per rettori e professori pavidi, non gli basterà mai.

Più si cede loro, più pretenderanno; fino al punto magari di presenziare a tutte le lezioni per controllare che i professori non dicano cose inopportune o che potrebbero urtare la suscettibilità dei popoli oppressi, rappresentati pro tempore e non si sa in base a quale principio dai collettivi universitari.

Bologna occupazioni collettivi israeleLa trattativa rettorato-collettivi a Bologna

E se le scene di Torino sono in questo senso magistrali, ancora più indicative sono quelle che ci arrivano da Bologna, dove una studentessa ha preso la parola e ha letto dallo smartphone, perché manco si ricordava la pappardella che avrebbe dovuto spiattellare a beneficio di telecamere e astanti, un comunicato che sembrava una via di mezzo tra Settembre Nero e un film di Verdone.

A Bologna si è celebrato un postmodernismo ai limiti del dadaismo, perché mentre scorrevano le accuse di mani lorde di sangue e altre amenità, il rettore si è alzato e ha interrotto lo show lasciandosi sfuggire una cosa del genere, «gli accordi si rispettano».

Insomma, è emerso che c’era stata una trattativa, la trattativa rettorato-collettivi per far sì che gli stessi durante l’inaugurazione dell’anno accademico potessero comiziare e sproloquiare.

E dato che la suddetta comiziante si è ritenuta insoddisfatta, pur non avendo a quanto lasciato intendere dal Rettore ossequiato i patti intercorsi, i collettivi sono insorti minacciando di occupare l’ateneo.

Occupazioni. Occupazioni. Non c’è altro linguaggio

Occupare. Occupare. Occupare. Non c’è altro linguaggio. Tutto pur di non studiare e soprattutto qualunque cosa per mettere pressione, coercitiva e violenta, non dialettica, alle istituzioni accademiche. È una vita che i collettivi vanno avanti con questa solfa. Ora ne viviamo una nuova primavera, anche se questi preferiscono l’autunno e magari specificamente il mese di ottobre con annessa rivoluzione, questa volta di cartapesta.

Occupano per avere aule a disposizione gratis, interdette ai poveri cristi che vorrebbero studiare e trasformate in bagordi da centro sociale, occupano per cacciare i fascisti dalle università, cioè chiunque non la pensi come loro, notori fascisti come Papa Benedetto XVI, Daniele Capezzone, David Parenzo, occupano per far dire agli organismi di vertice degli atenei quel che vogliono loro.

Sono decenni che occupano. Occupavano i nonni, poi i padri, adesso i figli, in alcuni casi canuti ex studenti che si spacciano ancora oggi per studenti, geologicamente fuoricorso e con la residenza presa nelle aulette occupate o graziosamente concesse loro dalle istituzioni accademiche.

L’esempio torinese fa scuola

Occupano il rettorato de La Sapienza, adesso. Immancabile, inevitabile. L’esempio torinese fa scuola. Precedente paradigmatico cui appellarsi. Adesso lo faranno ovunque. E i docenti, i consigli di dipartimento, i senati accademici muti, inerti, silenti o in alcuni casi solidali per passata militanza, loro stessi ex collettivi, Servire il Popolo e i Collettivi, dall’autonomia operaia all’autonomia universitaria.

E non erano né operai né universitari, a vedere bene. Il prossimo passo sarà far riscrivere i libri universitari, sbianchettare le pagine sgradite, pretendere di sostenere gli esami in quattordici e con domande concordate. Anzi, saranno loro a fare le domande ai professori, per testarne il grado di adesione effettiva alle magnifiche e rosse sorti progressive.

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