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Nancy Pelosi a Taiwan. Xi Jinping «si è messo in un angolo da solo»

Il presidente cinese è caduto nella trappola americana: ha ingigantito l’importanza della provocazione, accrescendo così anche la percezione generale della sua impotenza

Rodolfo Casadei
04/08/2022 - 6:27
Esteri
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Pelosi Taiwan
La speaker della Camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi (a sinistra), e la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen durante la conferenza stampa nel Palazzo presidenziale di Taipei (foto Ansa)

Sarà poi vero che Nancy Pelosi ha deciso e poi compiuto la sua visita a Taiwan contro il parere del Pentagono, nel silenzioso dissenso del presidente Biden, raccogliendo più consensi fra i deputati e gli ex ministri repubblicani che dentro all’amministrazione democratica? Dalle prime reazioni, la performance della speaker democratica della Camera dei rappresentanti sembra aver segnato punti a favore degli Stati Uniti e messo in difficoltà il governo di Pechino.

La Cina è la nuova “tigre di carta”?

La reazione di Xi Jinping all’intollerabile «violazione della sovranità nazionale» rappresentata dalla visita della Pelosi a Taipei è finora consistita in “sanzioni” commerciali contro la provincia ribelle che riguardano principalmente generi alimentari e materie prime per la produzione dei semiconduttori (di cui Taiwan è il primo produttore mondiale) e in un incremento delle manovre militari aeronavali intorno all’isola, con l’uso di munizioni vere.

Sembrerebbe dunque che la “tigre di carta”, immaginifica espressione utilizzata negli anni Sessanta da Mao Zedong per esorcizzare la potenza americana, non siano più gli Stati Uniti, ma la Cina di Xi Jinping. Costui nei dieci anni del suo mandato ha progressivamente intensificato la retorica sul dossier Taiwan, giungendo a stabilire che lo status quo iniziato nel 1979, quando gli Usa hanno riconosciuto il governo di Pechino come unico rappresentante della Cina ma hanno continuato ad armare e sostenere il governo di Taipei perché potesse difendersi da un’iniziativa militare del regime comunista, non potrà essere mantenuto oltre il 2049, data limite entro la quale l’isola dovrà in ogni caso essere riunificata politicamente alla madrepatria, se necessario anche usando la forza.

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A sostegno di questa posizione sono state intensificate le manovre militari nello stretto che separa Taiwan dalla Cina, nei forum internazionali Pechino si è adoperata perché Taiwan non fosse rappresentata e perché il suo nome non apparisse in documenti ufficiali delle Nazioni Unite, si sono moltiplicate le pressioni sui paesi che continuavano ad ospitare ambasciate del governo di Taipei (attualmente solo 14 paesi nel mondo riconoscono Taiwan, ma almeno 56 intrattengono rapporti gestiti attraverso uffici di rappresentanza).

Per Pechino non è il momento di attaccare Taiwan

La principale obiezione che era stata formulata nelle settimane scorse contro la visita di Nancy Pelosi è che gli Stati Uniti non possono rischiare di essere coinvolti, direttamente o indirettamente, in un altro conflitto militare con una superpotenza dotata di armi nucleari mentre sono impegnati a sostenere militarmente e finanziariamente l’Ucraina contro la Russia. L’obiezione si basava sul presupposto che veramente Pechino potesse scegliere di reagire alla provocazione americana innescando un’escalation di atti di guerra. In realtà questa opzione non è mai stata praticabile, al di là delle minacce dei portavoce governativi e dei media filogovernativi.

Xi Jinping sa benissimo che le forze armate cinesi non sono in grado in questo momento di invadere con successo Taiwan, un’isola grande come l’Irlanda e distante dalle coste cinesi 160 chilometri, armata fino ai denti e abitata da una popolazione ostile (secondo i sondaggi solo l’1,5 per cento dei taiwanesi è favorevole a una riunificazione immediata con la Cina continentale; solo il 5 per centro è favorevole a una dichiarazione di indipendenza in tempi brevi, mentre tutti gli altri sono favorevoli al mantenimento dell’attuale status quo, e fra loro quelli che si augurano l’indipendenza in futuro sono il 25 per cento).

Sa anche che mancano pochi mesi al XX congresso del Partito comunista cinese (Pcc), dove chiederà di essere confermato per la terza volta capo del partito e di conseguenza del paese, e che in quei pochi mesi una guerra con Taiwan e magari con gli Stati Uniti non sarebbe vinta e quindi non sarebbe un viatico per la sua rielezione.

La provocazione di Washington ha funzionato

Gli Usa dunque, per interposta pasionaria Pelosi fatta andare avanti come se non avesse nulla a che fare con l’establishment (fra l’altro dopo le elezioni congressuali di novembre perderà con ogni probabilità la sua carica di presidente della Camera dei rappresentanti), hanno condotto con successo la loro provocazione anticinese: hanno dimostrato ai partner asiatici che la Cina sa di essere militarmente inferiore agli Usa, che prende sul serio le dichiarazioni del presidente Biden di intervenire in difesa di Taiwan se l’isola sarà aggredita, che l’aggressività cinese è principalmente una tattica per ottenere concessioni e aumentare il proprio status ma non ha corrispettivi pratici. Hanno dimostrato che gli Usa non hanno paura della Cina.

Xi Jinping è caduto nella trappola: ha lui stesso ingigantito l’importanza della provocazione americana, accrescendo così anche la percezione generale della sua impotenza di fronte alla stessa. Ha scritto Tom Mitchell sul Financial Times:

«Gli agguerriti diplomatici del presidente Xi Jinping eccellono nella retorica feroce quando vogliono sminuire e snobbare le persone le cui parole e azioni, come spesso loro dicono, “feriscono i sentimenti” di 1,4 miliardi di persone nella Repubblica popolare cinese. Xi ha avuto ampie opportunità di istruire i diplomatici cinesi e il suo apparato mediatico statale, che funge da macchina per l’agiografia per il presidente, a fare lo stesso quando si è trattato della prevista visita di Nancy Pelosi a Taiwan. Pechino avrebbe potuto liquidare Pelosi come un’”anatra zoppa” e alleato di un presidente impopolare impegnato in un debole atto di evidente esibizionismo. Invece l’amministrazione di Xi ha deciso di conferire al pernottamento di Pelosi a Taipei un significato storico. Sulla politica di Taiwan in generale, e su questa crisi in particolare, Xi si è messo all’angolo da solo».

La nuova tattica Usa contro la Cina

Non è da escludere che in un futuro vicino gli Usa, chiunque sia il successore di Joe Biden, non decidano di moltiplicare le provocazioni anticinesi in relazione a Taiwan: l’obiettivo sarebbe quello di attirare Pechino in una trappola identica a quella in cui si è cacciato Vladimir Putin in Ucraina. Per impedire l’ascesa geopolitica della Cina a potenza egemone internazionale occorre che essa compia un errore che avrebbe conseguenze sul piano strategico, come quello di lasciarsi trascinare in una guerra per la quale non è ancora pronta che potrebbe vincere solo a carissimo prezzo e che avrebbe come risultato il suo isolamento economico dall’Occidente, come è già accaduto alla Russia.

La missione di Nancy Pelosi può essere interpretata come un saggio della tattica che gli Usa useranno sempre più nei confronti di Pechino nei prossimi anni. Tattica per la quale avere un presidente cinese come Xi Jinping è l’ideale, essendo il leader che più si è esposto con dichiarazioni roboanti sulla riunificazione di Taiwan alla Cina («missione storica» che non può più «essere trasferita da una generazione alla seguente»), dalle quali non può tornare indietro. Sarà interessante vedere se fra i 2.300 e passa delegati dell’imminente congresso del Pcc ci sarà qualcuno, magari con le stellette sulla manica, che vorrà far presente che forse gli interessi della Cina non coincidono con un terzo mandato di Xi.

@RodolfoCasadei

Tags: Cinajoe bidenNancy PelosiStati Unititaiwan
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