Myanmar. San Suu Kyi va difesa dai militari (nonostante i rohingya)
Lunedì Aung San Suu Kyi, capo de facto del governo birmano, è stata arrestata dall’esercito, conosciuto con il nome di Tatmadaw, e il capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, ha assunto tutti i poteri in Myanmar. Dopo aver annunciato il golpe, l’esercito ha dichiarato lo stato di emergenza per un anno e affidato la presidenza ad interim al generale Myint Swe. I militari hanno giustificato la mossa a sorpresa parlando di brogli alle recenti elezioni di novembre, promettendo un nuovo voto l’anno prossimo, ma molti si chiedono perché l’esercito al di là delle dichiarazioni di facciata abbia compiuto un colpo di Stato per arrogarsi un potere che, di fatto, già detiene.
LA DITTATURA MILITARE E LA DEMOCRAZIA INCOMPIUTA
I militari instaurarono una dittatura nello Stato del sud-est asiatico nel 1962, governando il paese da allora attraverso un sistema politico monopartitico. Nel 1990, l’esercito organizzò libere elezioni che portarono alla clamorosa e schiacciante vittoria del partito di Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia (Nld). La giunta militare si rifiutò di cedere il potere e incarcerò la “Dama” birmana, costringendola agli arresti domiciliari per 21 anni fino al 2010. Dopo le modifiche costituzionali del 2008, nuove elezioni furono indette nel 2010 e l’esercito mantenne il potere sotto una veste civile attraverso il Partito dell’unione della solidarietà e dello sviluppo (Usdp), sciogliendo l’anno successivo la giunta militare. Alle elezioni del 2015, le prime libere dal 1990, la Nld di San Suu Kyi ottenne nuovamente la maggioranza assoluta dei seggi e la Dama, che a causa delle modifiche costituzionali non poté assumere formalmente la presidenza, divenne la leader de facto del paese. Alle elezioni del novembre dello scorso anno, il partito del premio Nobel per la pace ha ottenuto la stessa schiacciante vittoria del 1990 e del 2015, conquistando oltre l’80 per cento dei seggi, anche in zone del paese storicamente controllate dai militari, a fronte di un’affluenza superiore al 70 per cento.
Nonostante il successo nelle urne da parte di San Suu Kyi, il processo di democratizzazione del paese è bloccato dalla Costituzione approvata dai militari nel 2008, che riserva all’esercito i ministeri di Difesa, Interni e Affari riguardanti i confini, il 25 per cento dei seggi nei parlamenti nazionale e regionali, oltre al potere di veto sugli emendamenti volti a cambiare le parti principali della Costituzione. Grazie allo smisurato budget a disposizione del ministero della Difesa (quasi 800 milioni di dollari), che il Parlamento non può discutere né contestare, l’esercito mantiene intatti i suoi proventi economici e il sistema di corruzione che gli permette di non temere ripercussioni legali di alcun genere. Perché dunque ordire un colpo di Stato proprio ora?
UN POSSIBILE AUTOGOL
Secondo il New York Times, l’esercito birmano teme che il crescente e persistente sostegno popolare a San Suu Kyi possa in futuro minare il controllo dei militari da parte del paese. Inoltre, il generale Min Aung Hlaing, che ha evitato di ritirarsi cinque anni fa dopo aver esteso da 60 a 65 anni l’età pensionabile per l’incarico che ricopre, teme che una volta lasciato il potere possa essere incriminato per pulizia etnica a danno dei rohingya. Resta da vedere, continua il Nyt, se un simile colpo di Stato non sia di fatto «controproducente», risultando impopolare all’interno dello stesso esercito.
Dal canto suo San Suu Kyi non ha nessuna intenzione di restare a guardare e ha già lanciato un appello al popolo: «Non accettate il colpo di Stato». I giornali occidentali sono stati piuttosto freddi con la Dama birmana in seguito al suo incarceramento. Le imputano infatti non solo di non aver portato avanti la democratizzazione del paese una volta assunto il potere, evitando di mettere i bastoni tra le ruote all’esercito, ma anche di aver difeso i generali nel 2019 davanti alla Corte internazionale di giustizia, quando questa li ha accusati di genocidio.
IL DILEMMA SUI ROHINGYA
La questione è spinosa. Il gruppo etnico di religione musulmana che vive nel nord-est del Myanmar, nella regione di Rakhine, al confine con il Bangladesh, è composto da circa un milione di persone. Queste non sono mai state accettate dalla maggioranza della popolazione birmana, che è buddista al 92 per cento, e che rifiuta perfino il nome “rohingya”, preferendo definirli “bengalesi di fede musulmana”. Per non irritare la maggioranza buddista, il regime militare ha sempre combattuto i rohingya sostenendo che sono entrati come immigrati nel paese dopo l’annessione dell’impero britannico del 1826 e che non hanno nessun diritto a risiedere in Myanmar. In realtà, esistono documenti che attestano la loro presenza nel paese fin dal 1799.
La discriminazione dello Stato nei loro confronti è fortissima e si traduce spesso in una vera e propria persecuzione, anche violenta, che negli anni scorsi ha costretto circa 500 mila rohingya a rifugiarsi nel vicino Bangladesh per sfuggire alle violenze dell’esercito. L’odio verso i rohingya da parte della popolazione buddista è stato anche alimentato dalla loro tentata secessione nel 1948, fallita definitivamente nel 1961, che spinge il governo a vederli come una popolazione nemica che vuole creare uno Stato a parte. La nascita di un gruppo terroristico in seno alla comunità musulmana, chiamato Harakah al-Yakin e guidato da alcuni membri scappati in Arabia Saudita, non ha fatto che aggravare il pregiudizio.
HA RAGIONE FASSINO
L’Occidente si aspettava che nel nome del rispetto dei diritti umani San Suu Kyi avrebbe difeso i rohingya dalla violenza dell’esercito, appoggiato in questa operazione dalla stragrande maggioranza della popolazione, e quando la Dama non ha voluto (o potuto) farlo, le ha voltato le spalle. Ma la verità è che San Suu Kyi, per quanto leader de facto del paese, non aveva affatto il potere reale per contrastare l’esercito, tanto meno prendendo posizioni che le avrebbero alienato il favore dei birmani.
Come afferma giustamente oggi sulla Stampa Piero Fassino, inviato Ue per il Myanmar dal 2007 al 2011,
«i generali hanno deciso di rompere il patto perché si sono resi conto che stavano perdendo potere. San Suu Kyi non ha fiancheggiato i militari, né li ha mai difesi. Ha dovuto convivere con loro sperando che la transizione consolidasse la democrazia. E sulla repressione dell’esercito contro i rohingya ha aperto una commissione d’inchiesta. Ma è rimasta schiacciata nella tenaglia: doveva mediare tra un confronto duro con l’esercito e il sentire di un popolo che guarda ai rohingya come a un corpo estraneo e pericoloso. Ha cercato di preservare la transizione alla democrazia, ma i generali l’hanno tradita. Bisogna aiutarla. Anche l’Europa ha una responsabilità politica e morale, non può limitarsi a stilare un comunicato stampa di condanna».
Foto Ansa
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