L'attacco del Commissario Breton al proprietario di X dopo l'intervista al candidato repubblicano svela l'ambizione dell'Ue di guidare la regolazione globale e decidere per legge cosa è vero e cosa è falso. Con molti rischi
«Le regolamentazioni minuziose a difesa della libertà generano servitù. La libertà fiorisce meglio in angoli trascurati». Il caro, vecchio Nicolás Gómez Dávila aveva colto esattamente la china che la civiltà avrebbe percorso: l’ansia cieca e furiosa di darsi presidi di carta, di legge, per tutelare la libertà, destinati però a divenire, e nemmeno in tempi tanto dilatati, legacci e vincoli servili.
Che l’Unione Europea abbia un problema di bulimia burocratico-normativa è cosa nota, palesemente evidente; spesso anzi la mancanza di piena investitura democratica di alcuni suoi organi si sublima esattamente in questa capziosa e cavillosa sovrabbondanza di norme, in una sorta di trasfigurazione del principio di legalità in purissima legalità procedurale.
Non siamo organi politici, ma burocratici, sembrano affermare i Commissari europei, e l’eco del pensiero di Kojéve si sente arrivare da lontano, e allora ci legittimiamo producendo norme.
Il Commissario Breton contro Elon Musk
Il problema è quando però gli stessi Commissari, come nel caso di Thierry Breton, sembrano lasciar trasparire una loro agenda politica. Breton, Commissario al mercato interno e padre politico del recentemente approvato Digital Services Act (DSA), ha da tempo ingaggiato una lunga e dura battaglia nei confronti di Elon Musk e di X.
Ma, nel caso della conversazione tra il patron di X e il candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump, Breton si è spinto oltre, rischiando l’incidente diplomatico e l’ingerenza nel processo elettorale statunitense. Difatti l’alto burocrate europeo ha inviato a Musk una durissima lettera nella quale, ricordando l’indagine che la Commissione sta conducendo su X a causa della asserita scarsa adesione ai meccanismi di compliance previsti dal DSA e richiamando gli scontri che stanno avvenendo in Inghilterra, ha espresso la sua preoccupazione per la potenziale diffusione di ulteriori fake news e ha messo nel mirino proprio l’intervista a Trump. È un atto oggettivamente senza precedenti. E per molti motivi.
Un assist potentissimo a Trump e Musk
Innanzitutto, Breton è un Commissario appartenente alla vecchia Commissione e se sarà confermato, ciò avverrà a partire da settembre. Nonostante alcuni dicano che la Francia starebbe lavorando per confermarlo, mi piace ricordare che a mente dell’articolo 17 TUE i Commissari agiscono in maniera indipendente rispetto i Paesi di loro provenienza: quindi, nonostante Macron ambisca a considerarlo magari confermato già da ora, non è e non può essere così. Quindi la sua investitura è traballante e formalmente in scadenza, almeno fino ad avvenuto, eventuale rinnovo. Un po’ troppo per sentirsi investiti di un atto tanto dirompente.
In secondo luogo, per la prima volta, non vengono richiamate genericamente fake news o un fatto determinato di disinformazione, ma una potenziale disseminazione di disinformazione in conseguenza di un colloquio politico riferito alla campagna elettorale statunitense, cioè di un Paese extra-Ue.
In terzo luogo, a conferma della estrema gravità e della intrinseca politicità di quella lettera, Breton non ha concordato in alcun modo il testo e l’invio con la Commissione stessa, come ha denunciato la stessa Commissione immediatamente dopo la divulgazione della nota.
C’è da pensare che una presa di distanza tanto netta quanto istituzionalmente inusitata, sia stata dettata alla Commissione da una evidente preoccupazione: quella di aver offerto a Trump e allo stesso Musk una straordinaria arma per attaccare la cavillosità burocratica europea e la sua tendenza a ingerirsi, quale sorta di regolatore universale, anche negli affari di politica interna di Paesi extra-Ue. Un assist potentissimo a Trump.
Il DSA e la libertà di espressione: una questione globale
Gli americani che hanno attaccato Breton e l’Unione Europea utilizzando meme raffiguranti la guerra di indipendenza del 1776 non hanno poi mancato di molto il bersaglio: perché l’Ue nutre una nemmeno tanto nascosta ambizione di proporsi davvero come guida della regolazione mondiale.
L’esternalità politica della regolazione dell’ecosistema digitale, capace di impattare al di là delle limitazioni territoriali, consiste esattamente nel proporsi come stella polare anche per imprese, piattaforme digitali, Stati che non appartengono alla Ue. Si chiama Brussels effect, ovvero un traboccamento regolatorio che per importanza e impatto delle nuove norme finisce per riverberarsi anche nelle scelte di soggetti extra-Ue.
Il precedente più effettivo e importante è quello rappresentato dal GDPR, che è divenuto pietra miliare della protezione dei dati personali ben al di là del territorio dei Paesi aderenti alla Ue. È indubbio infatti come moltissime aziende, quotidiani, piattaforme digitali, americani e giapponesi, operando anche a beneficio del pubblico europeo, si siano dovuti rendere compliant di quella normativa. Con il DSA l’ambizione è esattamente la stessa. Proporre un modello di contrasto alla disinformazione e alle fake news e di tutela degli utenti, anche mediante la responsabilizzazione delle piattaforme nella content moderation, che possa andare oltre la mera Unione.
Le piattaforme social sono editori?
Non è questa ovviamente la sede per una analisi tecnica del complessissimo framework normativo del DSA e dei provvedimenti a questo collegati, ma può dirsi sommariamente che il radicamento della sua applicabilità ricorrendo al parametro di stabilimento dell’utente, e non della piattaforma stessa, è un metodo per riaffermare la sovranità digitale dell’Unione: in questa prospettiva, non c’è dubbio alcuno che Musk e X ne debbano rispettare le previsioni normative, visto che la piattaforma impatta anche su milioni di cittadini di Paesi aderenti all’Unione. I problemi però non sono pochi, e non tutti sono stati risolti dal DSA, anzi.
Il primo è la semplicistica riduzione che molti commentatori vorrebbero proporre delle piattaforme a editori, con tutte le connesse responsabilità. In realtà, il sistema di compliance previsto dal DSA non va in questo senso, semplicemente perché il riconoscimento di una piattaforma quale editore finirebbe per integrare, per citare rovesciandone il postulato finale un noto libro americano sulla sezione 230 del Communications Decency Act, le parole che distruggono Internet.
La fine delle piattaforme digitali
Il DSA è un insieme complesso e articolato di co-regolazione e di autoregolazione connessa a sistemi di compliance, dai codici di condotta inseriti in un contesto nuovo rispetto quelli già vigenti del 2016 e del 2018, alla applicabilità soggettiva alle piattaforme di erogazione di servizi intermediari fino a modalità di risk assessment punteggiate di audit e di flussi informativi con le istituzioni euro-unitarie, ma in alcuni elementi riprende, come già la direttiva 2000/31 faceva, le clausole di esonero, conosciute nella regolazione americana come samaritan clause, tipiche dei media digitali, nei quali difficilmente sarebbe ipotizzabile una responsabilità oggettivizzata simile a quella editoriale.
Si fa presto a dire che una piattaforma dovrebbe essere riconosciuta sic et simpliciter come un editore, ma questo significherebbe, senza molti giri di parole, la fine totale delle piattaforme digitali, che sarebbero costrette come un qualunque direttore responsabile ad esperire un controllo minuzioso su qualunque contenuto.
La Ue e il “modello Facebook”
Il DSA ha già stretto moltissimo le maglie e responsabilizzato le piattaforme in maniera persino eccessiva, tanto ciò vero che molte, come Meta, per non incorrere in alcun rischio, cancellano e censurano contenuti senza andare troppo per il sottile: chiunque abbia una pagina Facebook, sa bene a cosa io mi stia riferendo e a come negli ultimi mesi siano divenuti a rischio cancellazione persino contenuti evidentemente artistici o letterari.
È questo il modello cui ambisce la Ue? Un sistema in cui L’origine del mondo di Courbet viene considerato oscenità o un libro non pianamente conforme alla vulgata comune, per quanto ricercato, documentato, motivato, merita di essere cancellato?
Ma soprattutto, il vero problema a monte, fulcro di questa enorme battaglia: quando una notizia deve essere considerata falsa e, soprattutto, quando la falsità viene considerata giuridicamente meritevole di censura e cancellazione?
Il caso inglese (e non solo): la guerra contro le false notizie
Nella sua lettera, Breton fa espresso riferimento agli scontri che da settimane ormai stanno agitando l’Inghilterra. In precedenza, era stato già il premier britannico Starmer a puntare il dito direttamente contro Musk, accusandolo di aver contribuito a soffiare sul fuoco: Musk ha infatti contribuito ad amplificare notizie che si sono poi rivelate false. Non solo, secondo i vertici Ue e quelli britannici, avrebbe anche evocato la guerra civile.
Su questo secondo aspetto, in realtà Musk ha scritto su X che «la guerra civile è inevitabile», una frase che può certo essere letta come evocazione ma anche come presa d’atto di un dato di fatto: una frase che di suo non è riconducibile nell’alveo di una precisa previsione normativa, non più di quanto Lo scontro delle civiltà di Huntington non possa essere accusato di rinfocolare la guerra tra civiltà.
In fondo, come insegnava Marc Bloch ne La guerra e le false notizie, molto spesso è proprio il potere costituito a servirsi della diffusione di notizie false. Immaginare una falsità e una verità determinate dallo Stato e soprattutto quando la falsità integri un rischio sistemico meritevole di repressione lascia intravedere un futuro non troppo roseo.
Tanto ciò vero che la prima fake news della storia potrebbe essere verosimilmente quella riportataci da Tucidide e riguardante la falsa lettera di Pausania indirizzata a Serse, lettera che valse un processo al reggente di Sparta.
E, altrettanto non casualmente, la difficoltà di stabilire in cosa consista la falsità di una notizia, o peggio ancora di una opinione, e di quando la stessa poi diventi rischio sistemico, ha tenuto lontani gli organi europei da una piena tipizzazione espressa del concetto di fake news, che viene invece ricavato da un complesso, e ambiguo, framework ricostruttivo.
Il passo che separa abuso di potere e convenienza politica
Una china pericolosa, si diceva, perché come in tutti quei casi in cui si assiste alla regolazione giuridica di quanto non è concetto giuridico, la falsità come la oscenità, il passo che separa tutela da abuso del potere e convenienza politica è molto breve. E lo sanno bene in Inghilterra, dove a legislazione vigente e immutata ma a sensibilità politica di molto mutata, si sta comminando la galera a gente ‘rea’ del post sbagliato sui social media.
Questo perché istigazione, falsità, odio sono e restano concetti sdrucciolevoli, non-giuridici, difficilmente correlati a un nesso causale tra espressione verbale, o digitale, e azione violenta. E la scelta di come azionare quei dispositivi metagiuridici è intrinsecamente politica, legata al senso comune di un dato momento storico, un senso comune che persino i giudici sovente ossequiano. E questo sì diventa pericoloso.
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