

Chi in queste settimane di guerra in Ucraina ha detto le parole più assennate? Il Papa, che ha chiesto il digiuno e la preghiera per ottenere quella pace «che gli uomini da soli non riescono a raggiungere e a costruire». Chi in queste settimane di guerra in Ucraina è stato più ignorato? Sempre il Papa, purtroppo.
Chiedere la pace non è richiesta da imbelli o da pavidi, è il contrario. Non significa non capire la situazione, dimenticare la storia, esprimere pii desideri, astratti e utopici. Significa esattamente l’opposto: tenere conto di tutto, dei motivi di tutti, ma chiedere a tutti di agire secondo ragioni diverse da quelle che hanno portato al conflitto.
Non sta andando così, lo vediamo. Putin persegue nei suoi raid portando morte e distruzione. Lo fa in Ucraina con una violenza che non risparmia nemmeno i civili e lo fa in patria, mettendo a tacere ogni forma di dissenso. Il sito di Diesse ha pubblicato il testo di un appello di 5.000 insegnanti russi contro la guerra che è stato fatto sparire dalle autorità pochi giorni dopo la pubblicazione. E nelle scuole si insegna che la mossa da Putin non è una «guerra», ma una «operazione militare speciale».
Niente di strano, in fondo: l’altro giorno un giornalista turco ha chiesto al ministro degli Esteri di Putin se la Russia avesse intenzione di invadere altri paesi dopo l’Ucraina. Risposta di Lavrov: «Non programmiamo di invadere altri Paesi, non abbiamo attaccato l’Ucraina per primi» (ovvio, è stata la terra ucraina a infilarsi sotto i cingoli dei tank russi).
Sul fronte occidentale, in quanto a propaganda, non siamo messi meglio. Dopo le grottesche battaglie contro Dostoevskij, i gattini e i videogiochi, adesso ci si è messo pure Facebook (Meta) che ha deciso che saranno consentiti i messaggi di odio contro la Russia. «A causa dell’invasione russa dell’Ucraina, siamo tolleranti verso forme di espressione politica che normalmente violerebbero le nostre regole sui discorsi violenti come “morte agli invasori russi», ha detto a France Presse Andy Stone, capo delle comunicazioni di Meta, «continuiamo a non consentire appelli credibili alla violenza contro i civili russi». Si potrà quindi incitare alla morte di Putin e del presidente bielorusso Alexander Lukashenko.
Sarà addirittura «temporaneamente» consentito esprimersi a favore del Battaglione Azov «nello stretto contesto della difesa dell’Ucraina o del suo ruolo come parte della Guardia Nazionale Ucraina». Quindi secondo la suprema guida della moralità mondiale, l’ayatollah del virtuale Mark Zuckerberg, si può odiare, a patto che si odino i russi. Si può anche, «temporaneamente», sostenere i neonazisti di Azov, almeno finché anche loro continuano a odiare chi odiamo noi.
Siamo finiti in un labirinto, così non se ne uscirà mai. Antonio Socci ha scritto su Libero un articolo molto acuto in cui si è chiesto: «Ma davvero abbiamo bisogno di nemici da odiare?».
La necessità di “costruire un nemico” per giustificare la propria aggressività è questione vecchia quanto il mondo. Per non divagare troppo e stare all'”oggi”, è questa la strategia usata da una parte e dall’altra. Questo non significa che le responsabilità siano identiche, ma che occorre uscire dallo schema mentale per cui solo la guerra e l’annientamento dell’altro può portare a una soluzione.
Qui si capisce, allora, la posizione della Chiesa, come scrive Socci. «La Chiesa si sottrae alla logica dell’odio e del nemico. Ha un’altra logica, non binaria, non da guerra fredda (né calda). Il Papa ripete che uomini e popoli non hanno bisogno di un Nemico, ma di misericordia e comprensione. Che vuol dire dialogo e consapevolezza che l’altro è un bene per me».
Dopo quindici giorni di guerra sentiamo ancora più urgente cercare delle ragioni che mostrino cosa significhi quest’ultima frase scritta da Socci: «L’altro è un bene per me». Forse, anziché continuare a cercare motivi per giustificare il nostro odio (tra l’altro: il nostro odio di europei comodamente seduti in poltrona mentre in Ucraina crepano sotto le bombe), forse varrebbe la pena seguire i consigli del Papa.
Da questo punto di vista, un episodio minimo – così ridicolo e marginale rispetto a ciò che accade sui grande scenari del conflitto – ha attirato la nostra attenzione. Si tratta di quelle immagini in cui un gruppo di donne ucraine ha offerto del cibo ad un giovane militare russo catturato. Il povero soldatino, di fronte a tanta cura, si è commosso. Le immagini sono state riproposte dai nostri media col solito sottofondo sentimentale con cui si trattano queste vicende, ma per noi significano di più. Soprattutto per quel che si può immaginare sia accaduto prima di quella scena, cioè quando quelle donne – presumibilmente timorose e perfino giustamente adirate con l’orribile invasore – hanno invece scelto di consolare il giovane, vedendo sotto il suo elmetto non il nemico, ma l’essere umano, il figlio.
È questa l’intuizione eterodossa – altra rispetto ai nostri calcoli, altra rispetto alle nostre ragioni, altra rispetto alla violenza giustificata – che Hannah Arendt chiamava “miracolo”: «Quanto più la bilancia pende verso la catastrofe, tanto più l’atto compiuto in libertà appare miracoloso». Il miracolo è «l’interruzione» dell’automatismo insito negli «eventi di natura». Esso è, «in assoluto, l’inatteso imprevisto».
È per questo che il Papa chiede di pregare: perché in tutti, dai capi della Terra in giù, si dilati la “miracolosa libertà” mostrata a tutti da un gruppo di donne. Laggiù, in Ucraina, in un giorno di feroci combattimenti.
PS per i lettori che ci scrivono di non capire le ragioni russe e di ignorare cosa è successo nel Donbass in questi anni. Del Donbass noi abbiamo parlato spesso: ci abbiamo pure fatto un reportage. Abbiamo raccontato delle bombe lanciate da Kiev su Donetsk, così come della persecuzione dei ribelli filorussi contro i cattolici a Lugansk. È un conflitto dove ci sono state atrocità, da una parte e dall’altra. Resta in fatto che quanto lì accaduto non giustifica in alcun modo l’invasione dell’Ucraina. Quindi, per favore, cari lettori manichei, smammate e andate a fare le vostre prediche da un’altra parte.
Foto Ansa
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