Mio papà è un prete. E anche l’altro mio papà è un prete
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Sì è vero, forse sono solo un fossile del cosiddetto “secolo breve”. Ma né quando ho archiviato il Libretto rosso di Mao, né quando ho tirato fuori il cristiano col Senso religioso di Giussani, ho mai portato il cervello all’ammasso e gli attributi al bollitore. E questo lo devo a ai miei padri. A parte il ’68 di immaginario paterno collettivo, il primo a pararsi davanti a me, in carne e ossa, fu un trentenne che riposa nel cimitero di Lambrate a Milano. Aveva i capelli rosso fulvi, detestava gli smidollati boy-scout che leggevano il Manifesto, amava chi gli piaceva e viveva dalla profondità delle viscere la ricerca del senso della vita. Detto con franchezza, non era un prete con le palle lesse. Era capace di affrontare da solo, a pugni serrati, qualsiasi drappello di Movimento studentesco che avesse il coraggio di mettere piede nella sua classe di liceo Luigi Cremona. E sfanculava la gente in chiesa, a Milano, in santa Maria alla Fontana, tutte le sante messe parrocchiali di ogni santa domenica. Per questo la messa principale delle ore 11 era sempre gremita. Metteva in fuga gli azzimati paolotti e le beghine di Azione cattolica, ma la chiesa era sempre piena di canti e di comunità giovanile. E sfanculava per primi loro. I giovani. Altro che i ruffiani giovanilisti di adesso. Si capiva che, dal pianeta più distante che ci potesse essere da quello che noi chiameremmo politicamente o ecclesialese corretto (che sono poi la stessissima identica cosa), c’era in quest’uomo, l’uomo. Una volontà di ragione, un’energia affettiva, una simpatia della carne, prorompenti. Noi eravamo proprio le sue pecorelle. E lui era proprio il nostro cane pastore.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Il tuffo da venticinque metri
Mi confessò una volta – e il suo nome era, Pontiggia Giorgio – se credo di ricordare bene, che decise di farsi prete passata che fu una sera di bisboccia in zona Tibaldi, a casa del suo amico Renato Pozzetto. Quando guardando giù dal terrazzino le ragazze che tornavano a casa, gli venne d’improvviso il pensiero che tutto quel ben di Dio sarebbe finito in nulla. A meno che. Dio? Dio. Che poi si sarebbe annoiato anche di Dio se sul finire del seminario non avesse incontrato quell’altro pazzo di «non voglio vivere inutilmente» il cui nome per gli amici era “Giuss”. E del quale Pontiggia Giorgio divenne braccio d’acciaio di educatore di ragazzini allevati col rito d’iniziazione fegatoso del tuffo da venti metri da un palo del lago di Lecco. Di questo Pontiggia, che fu l’inventore e rettore – per oltre vent’anni – del Sacro Cuore di Milano, resta alla storia anche il Portofranco, primo doposcuola milanese di adolescenti italiani e non.
Il leader di Cl non è cattolico
Di questo Giussani diciamo invece che egli ci fu padre in seconda. Del sottoscritto, come di generazioni di giovani, che divennero poi soprattutto maestri e insegnanti, e senza i quali non si spiega ad esempio il progresso e la civiltà incontrastata di Lombardia. Nel mio piccolo, sulla scia del grande rosso fulvo, mi imbattei e mi abbeverai anch’io in questa stupefacente sorgente che aveva preso a sgorgare ai primi degli anni Cinquanta .
Insieme, ad esempio, al portatore di Lacan in Italia, lo strizzacervelli Giacomo Contri. Il tale che ha appena dubitato su Repubblica che Giussani fosse “cattolico”; verità detta in forma di iperbole per dare a intendere quanto egli fosse un soggetto da calibro 38 piuttosto che un chierico moscio. Tant’è che anche Contri deve ammettere che un’intelligenza più spericolata di Lacan l’ha vista solo in quel “non prete” che gli ha portato Gesù come “fatto”. E perciò un bel giorno, dal lato di pazzo scappato dalla gabbia in compagnia di Lacan, anche Contri aderì a Comunione e Liberazione.
I cori dell’Armata Rossa
Per tagliar corto: di Padre ce n’è uno. E i padri che ci capita di incontrare nella nostra breve esistenza non sono altro – se sono davvero padri – che richiamo, traccia, segno, rinvio, al Padre. Al di là della biologia, che è un incidente, “padre” – dice Dante di Virgilio – «è lo mio maestro e ‘l mio autore». Padre – e perciò vero amico, non “amichetto” pirla – è il datore del senso del viaggio. Come vedete, non ho neanche il diploma. Ma finalmente, il mio anticlericalismo a ragion veduta è maturato fino alla resa. Sì, in effetti, il padre per eccellenza di analogia è il prete. Perché il prete è il prete di tutti. Come il Padre è il padre di tutti. Si somigliano. Perciò, che vadano a ciapà i rat, a correre appresso ai topi, i preti che hanno il problema di farsi sposare. Siate eunuchi per il Regno di Dio, dice Paolo. Ma se proprio non ce la fate, sposatevi. Che poi il padre sappia o non sappia voler bene questo è un problema tremendo. Ma non decisivo. Infatti la maggior parte dei preti è anaffettiva e sterile. Sterile, perché anaffettiva. Sarei tentato di dire che il prete pedofilo almeno “ama” qualcuno. Ma non si può. Dunque, per gustare e crescere nel segno che rappresentano al mondo, i preti dovrebbero votarsi all’attrattiva per la Donna (con la maiuscola che ci fece scoprire quel sacramento di Giussani attraverso Leopardi; ma non prima però di averci fatto verificare che avevamo duo testiculos, et bene pendentes, sulla sedia gestatoria delle corali dell’Armata Rossa).
Pulire il sedere
Io sono di quelli che non ce l’hanno fatta. Sono sposato da 34 anni e mia moglie ultimamente mi ripete spesso che dovrei cominciare a farmi delle domande. Che dovrei imparare a fare il padre. A sessant’anni? Dimmi a quale facoltà mi devo iscrivere. Neanche da figlio però sono mai andato oltre le elementari. Mio padre infatti ultimamente ha parlato di me a mia sorella. «Vedi che ha cominciato a volermi bene?». Padre, è solo perché sono stato al tuo capezzale dieci giorni, mentre è da un anno che Rita ti pulisce il sedere? «No – mi risponderebbe se potesse confessarlo – è che da quando ho seguito il tuo consiglio di confessarmi, ho capito che tu avevi ragione e io torto».
Una moltitudine di popoli
Sono stato fortunato a dare certi consigli a mio padre. Eppure, vedete, sono un figlio analfabeta che a sessant’anni non ha neanche imparato a fare il padre. È così, tutti noi riceviamo tanto bene. Ma poi, oltre a capirlo, bisogna sacrificarsi. Non c’è niente di davvero comprensibile nella vita umana se non alla luce del Cristo in Croce. Fatevelo marchiare sulla pelle col fuoco di Tre donne (chi non legge il romanzo autobiografico della Corradi si perde l’unica cosa seria della mia generazione).
«Intender no la può chi no la prova». La prova. Ma sì, noi cristiani, spiritualmente ebrei, siamo fortunati. Il miele ci scende dall’Hermon. Anche se, come il sottoscritto, si è asini anche al tempo del piede a un passo dalla tomba. La nostra fortuna è cominciata con Jahvé. Il Padre sulla cui pietra Abramo venne edificato – anche senza aver frequentato la facoltà di Facebook e di psicologia familiare – come padre di una moltitudine.
«Eccomi: la mia alleanza è con te
e sarai padre
di una moltitudine di popoli».
Insomma, non solo La Bibbia aveva ragione come titolò il famoso tomo di Werner Keller. Ma la Bibbia ha e avrà sempre ragione. Così mi è andata bene per il compleanno del mio sestogenito sedicenne Giò, che non ho potuto festeggiare de visu, ma mi è venuto spontaneo telegrafarlo (anzi whattsapparlo, ah generazione del comunicare troppo facile!) con la magnifica liturgia del giorno precedente il suo compleanno. Questa generazione passerà, passerà la mia, quella dei quarantenni amministratori delegati all’isola della tentazione, passerà quella X. E anche dopo i millennial verranno altri embrioni disidratati ed essiccati nel loro Dna dopo che hanno scoperto come si fa il lego per prevenire le malattie genetiche e si faranno a pezzi per ottenerne il copyright.
Il tesoro nel campo
Ma il Padre non passerà. Infatti, si chiama Padreterno e dirà l’ultima parola. Così, come da ultimo, il 31 luglio scorso, dicevo che al mio figlio più piccolo per il suo sedicesimo compleanno in surf, ho whattsappato che «quel pirla di Giò non mi risponde al telefono. Beh, fategli sapere che per i suoi 16 anni ci sono anch’io, in spirito anima e corpo, ad augurargli tutto il bene possibile, cioè come dicevano le tre letture di ieri a messa: 1 la capacità di giudizio, come ha richiesto a Dio re Salomone, 2 di trovare il tesoro nel campo, 3 di non voltarsi indietro dopo aver messo mano all’aratro: infatti non c’è altra strada alla pienezza della vita – in qualunque condizione di vita – che quella segnata una volta e per sempre dall’amicizia di Cristo. Ciao raga».
Foto Ansa
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