
«Mio nonno Gino Bartali, che non raccontava mai di aver salvato gli ebrei»

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A insegnarle ad andare in bicicletta «fu il nonno Gino che, appunto, per me era solo “il nonno” che abitava all’ultimo piano della nostra palazzina. Di lui ho ricordi di bambina, le serate davanti alla tv, i giochi, i momenti quotidiani che si vivono in ogni famiglia. Ma il nonno non ci spinse mai a intraprendere la strada professionistica e a far diventare il ciclismo “un lavoro”, come lo chiamava lui. Anzi, se proprio devo dire, un po’ ci scoraggiava, soprattutto negli ultimi anni quando, con l’arrivo del doping, non riusciva più a riconoscersi in un mondo che era stato il suo. Amava sempre parlare del Giro d’Italia, delle tappe, e il ciclismo rimase per lui sempre una grande passione, ma a noi nipoti e ai suoi figli raccomandava soprattutto di studiare, cioè di fare quel che lui, essendo nato in una famiglia di umili origini, non aveva potuto fare».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]GIUSTO TRA LE NAZIONI. Lisa Bartali è la nipote di Gino, il grande ciclista che ha fatto la storia di questo sport e non solo. Non è un caso che il suo nome sia tornato sulle prime pagine dei quotidiani in questi giorni, in cui è stato annunciato il programma della 101esima edizione del Giro che partirà a maggio da Gerusalemme con le prime tre tappe in Israele. «Era doveroso rendere omaggio alla memoria di Ginettaccio», ha detto il ministro dello Sport Luca Lotti alla presentazione dell’evento.
La vicenda è nota: durante la Seconda guerra mondiale, con Firenze occupata, Bartali fece il “corriere” trasportando nella canna della bicicletta documenti che sarebbero stati utilizzati da ebrei per sfuggire alla persecuzione. Grazie al suo coraggio, centinaia di persone ebbero salva la vita, circostanza che ha portato nel 2013 lo Yad Vashem a inserirlo tra i “Giusti tra le nazioni”.
QUALCUNO LASSÙ. «L’aspetto più straordinario di questa storia – racconta Lisa a tempi.it – è che il nonno non ne parlò mai: né coi figli né con noi. Era un tipo ciarliero, amava la compagnia e le chiacchiere tra amici, ma su certi aspetti più privati e intimi aveva grande ritrosia ad esporsi. C’erano, certamente, dei motivi di sicurezza, ma soprattutto c’era la sua convinzione che “il bene si fa ma non si dice; il bene va fatto senza vantarsene”».
Lisa collega questo atteggiamento alla profonda fede cattolica del nonno: «Pensava che il bene andava fatto non per il riconoscimento sociale, ma perché Qualcuno lassù potesse vederlo. Lui diceva sempre che ognuno aveva un compito e che i meriti ci sarebbero stati riconosciuti da Dio, non importava se da altri uomini. La vicenda del salvataggio degli ebrei è diventata nota, ma il nonno riceveva ogni giorno lettere con richieste d’aiuto, anche economico. E lui si prodigava per aiutare tutti, per come poteva. Ma non ne parlava volentieri, anzi. In sessant’anni non ne ha mai fatto parola! Mio padre lo scoprì solo negli anni Ottanta».
L’INGINOCCHIATOIO. La fede in Gino si era fortificata e approfondita «dopo la morte in gara del fratello ventenne Giulio. Il nonno ne soffrì moltissimo, ed era tormentato dal senso di colpa per averlo spinto a intraprendere la carriera sportiva insieme a lui. Penso che quella disgrazia fu per lui un momento di svolta. S’avvicinò ai carmelitani scalzi, divenne devotissimo di Santa Teresina del Bambin Gesù, fece costruire in casa una cappellina privata che fece consacrare nel 1937. Ogni giorno vi faceva celebrare una Messa. Ricordo un suo inginocchiatoio “personale” dove si raccoglieva spesso in preghiera».
IL MUSEO. «Quel naso triste come una salita / Quegli occhi allegri da italiano in gita» come lo immortalò Paolo Conte, «era un uomo che fino a ottant’anni ha guidato l’automobile» racconta la nipote. «Era sempre in giro per l’Italia e per il mondo dove il suo mito persiste ancora oggi». Affinché la memoria di questa vita leggendaria non vada persa è nato un museo che, spiega Lisa, «è sorto per iniziativa dell'”Associazione Amici del Museo Gino Bartali”. Ma il luogo, che nacque col beneplacito del nonno, non è celebrativo della sua figura (non l’avrebbe mai permesso), ma è dedicato alla storia del ciclismo e ai giovani. Contiene due sue biciclette e i suoi trofei, ma anche molto altro e io, nel mio piccolo col mio blog, do una mano a promuoverlo e farlo conoscere. Abbiamo organizzato mostre, fiere e la staffetta che è passata davanti alla sinagoga. La cosa più bella sono le visite delle scuole durante le quali raccontiamo la sua storia inserendola nel contesto della vicenda nazionale. Un modo per spiegare anche ai più giovani cosa accadde nel nostro paese e l’eroismo di quei tanti che, a rischio della propria, salvarono la vita altrui».
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