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Minzolini senatore a vita

Un grazie ai «maiali» del Pd che hanno votato contro la decadenza del senatore forzista. Il suo caso è perfetto emblema del cortocircuito giustizia-politica

Pietro Piccinini
17/03/2017 - 12:56
Politica
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minzolini-senato-ansa

Il caso del senatore Augusto Minzolini, “falco berlusconiano”, ex direttore del Tg1 condannato per peculato nel secondo grado di giudizio e in Cassazione dopo essere stato assolto nel primo, salvato ieri dalla decadenza secondo la legge Severino grazie anche ai voti di alcuni colleghi del Pd a Palazzo Madama, è uno di quei casi dove si vede chiaramente, per chi non abbia gli occhi foderati di manette, tutta l’assurdità del cortocircuito giustizia-politica e politica-giustizia che ammorba questo paese.

C’è l’assurdità di un cittadino che viene trascinato in un processo penale (sottolineiamo: penale, con l'”ovvia” gogna mediatica che regolarmente i giornali riservano in simili circostanze ai loro avversari politici e alle persone non gradite) semplicemente sfruttando la mitica obbligatorietà dell’azione giudiziaria, agevolata, in questo caso, dalla confusione gestionale di un’azienda statale gestita partiticamente, e dalla pavidità dei soliti funzionari che non riescono ad assumersi le proprie responsabilità. Tutto per la stupida (sottolineiamo: stupida) vicenda di una carta di credito aziendale concessa forse con qualche leggerezza, ma trasformata in uno scandalo nazionale da un esposto firmato da… un partito politico. La storia, ormai universalmente nota per avere occupato le colonne dei giornali fin troppo a lungo, è ben riassunta dallo stesso Minzolini in una vecchia intervista a Tempi, e avrebbe dovuto chiudersi quando il giornalista – quasi subito – decise di restituire comunque alla Rai le presunte spese improprie effettuate. Invece la storia non si è affatto chiusa. È durata sei anni e anche di più.

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Poi c’è l’assurdità della legge Severino, che «subordina la Costituzione alla prima sentenza che capita», come ha scritto Maurizio Tortorella su Tempi e come questo giornale ha ripetuto innumerevoli volte fino allo sfinimento, e che fu approvata scriteriatamente al solo scopo di placare l’ennesima vampata di furia forcaiola alimentata dalla presunta “emergenza corruzione” numero mille. A spese, ovviamente, della politica.

Soprattutto, c’è l’assurdità di una giustizia che fa politica, eccome se la fa. Bisogna leggere, in proposito, un passaggio del discorso pronunciato ieri nell’aula del Senato dallo stesso Minzolini prima del voto sulla sua decadenza (l’intervento è riproposto in forma quasi integrale dal Giornale, e vale la pena di leggerlo tutto perché vi è ricostruita nel dettaglio anche tutta la vicenda processuale). Ecco il brano:

«Il 27 ottobre del 2014, ci fu l’appello. Senza riaprire l’istruttoria, assumere nuove prove, raccogliere nuove testimonianze o riascoltarmi, la sentenza di assoluzione viene ribaltata. Di più, il tribunale va oltre le richieste dei pm: mi condanna a due anni e sei mesi e all’interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo della pena. Insomma, è una sentenza che mi consegna all’oblio. Resto esterrefatto. Non mi riconosce neppure l’attenuante della restituzione dei soldi che io ridiedi alla Rai addirittura prima di ricevere l’avviso di garanzia. La mia colpa sarebbe stata quella di non aver calcolato i danni. Ma come avrei potuto farlo? L’azienda all’epoca non me li chiese. Senza contare che, successivamente fui assolto in primo grado e il giudice del lavoro costrinse la Rai a ridarmi i soldi. E, paradosso nel paradosso, dopo che con la condanna definitiva ho di nuovo ridato i soldi all’azienda, quest’ultima non mi ha chiesto i danni».

«Resto sconvolto. Non mi do pace. Comincio ad analizzare quanto è avvenuto con lo stato d’animo di chi si sente tradito dalla giustizia. Scopro che nel tribunale di Appello, quello che ha capovolto l’assoluzione di primo grado, c’era un giudice che è stato in politica per venti anni. Il giudice in questione, Giannicola Sinisi, ha, infatti, avuto una lunga carriera in politica nello schieramento avverso rispetto al mio. Questo è il giudice che mi ha condannato, capovolgendo una sentenza di assoluzione e, ancora, che ha aumentato di 6 mesi la pena richiesta facendomi in questo modo incorrere nella legge Severino. Cosa direste se Michele Emiliano, politico, magistrato da 12 anni in aspettativa, e, ora, candidato alla segreteria del Pd, ritornasse in futuro al suo vecchio mestiere per giudicare in tribunale Renzi? Mi viene quasi da ridere».

«Non basta. Il relatore del mio processo in Cassazione è stato Stefano Mogini, già capo di gabinetto del ministro di grazia e giustizia del governo Prodi. Ebbene, Mogini è stato consigliere giuridico della delegazione diplomatica che lo Stato italiano ha oltreoceano presso l’Onu. Lui e Sinisi erano i due magistrati che avevamo in America. Hanno lavorato gomito a gomito per cinque anni. Poi, tornati in Italia, nel giro di un anno, sono stati chiamati entrambi a giudicare il sottoscritto, in due diversi gradi di giudizio: beh, francamente, tutto questo fa una certa impressione sul piano delle coincidenze».

Adesso hanno un bel da protestare i miliziani del giustizialismo, che idolatrano “le carte” e “i fatti” come uniche verità pubblicabili, ma davanti al parlamento che vota a favore di Minzolini non riescono ad andare al di là della lettura di partito. «Maiali politici», li chiama Peter Gomez. È stato solo – denunciano – uno scambio di favori tra Pd e Forza Italia che il giorno prima aveva contribuito a salvare il ministro renziano Luca Lotti.

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Il Fatto quotidiano pubblica in prima pagina la lista degli “infami” del Pd che si sono astenuti o hanno votato contro la decadenza del “condannato”. Ma oltre a strillare «voto di scambio», perché non si chiedono davvero, almeno una volta, perché quei «maiali» hanno votato come hanno votato?

Spiega Massimo Mucchetti (Pd) a Repubblica:

«Quella sentenza di condanna non sta né in cielo né in terra. (…) Qui il garantismo non c’entra. La sentenza di condanna è stata smodata. Sia per l’entità della somma che sarebbe stata sottratta alla Rai – per altro restituita – sia per le modalità con le quali l’intera vicenda è stata sovraccaricata. Problemi del genere in un paese civile si risolvono in un un processo amministrativo, non penale».

Spiega Pietro Ichino (Pd) al Corriere della Sera:

«Nonostante io detesti il modo di intendere il giornalismo di Minzolini (…) studiando la questione, sono rimasto molto colpito dal fatto che non gli avessero dato le attenuanti generiche, che si danno a tutti gli incensurati, soprattutto quando hanno risarcito il danno. (…) Ho visto che la sentenza di primo grado di assoluzione è stata rovesciata da una Corte d’appello di cui faceva parte un magistrato, Giannicola Sinisi, che è stato per due decenni in Parlamento nello schieramento opposto a Minzolini. Questo mi pare un caso in cui l’obbligo di astenersi è ovvio. Ma non è stato così. (…) [Con la legge Severino] la decadenza non è automatica. E per capire come sia giusto che il Parlamento abbia un ruolo, basta vedere quello che accade in Turchia, con la condanna di molti deputati dell’opposizione da parte di giudici evidentemente sensibili agli orientamenti del governo».

Quanto ai grillini, Luigi Di Maio ha convocato una conferenza stampa per stracciare in pubblico la legge Severino (foto qui sopra) e si è distinto come sempre per il commento più paraculo di tutti: «Non vi lamentate se i cittadini vengono a manifestare in modo violento». Replica il Minzo in una intervista al Messaggero: «Che cosa direbbe Di Maio, se fosse giudicato da Anna Finocchiaro, che torna in magistratura dopo l’esperienza politica? Troverebbe giusto Di Maio essere condannato da una figura così, che ha fatto questi passaggi come se nulla fosse?». Ecco onorevole Di Maio, se dovesse succedere, poi non si lamenti.

Foto Ansa

Tags: augusto minzolinifatto quotidianolegge severinoLuigi Di Maiomassimo mucchettipietro ichino
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