
Terra di nessuno
Mia figlia, diciassette anni. Come il vento di marzo
Lei entra in casa ed è come il vento di marzo, quando irrompe nelle strade grigie di inverno e le scompiglia, cacciando via in mulinelli le foglie morte. Lei ha diciassette anni e spalanca la porta, getta il cappotto, accarezza il cane, entra in cucina e d’un fiato snocciola le novità del giorno – un’interrogazione, e una festa, sabato, a cui «deve assolutamente» andare. Nel frattempo apre il frigo e, delusa, recrimina: non c’è niente da mangiare. Si siede, e sul tavolo balza Attila, il gigantesco gatto nero, che deciso si avvicina alla sua prediletta e le strofina amorevolmente il muso contro le guance, e fa le fusa. «C’è da portare giù il cane», faccio io, e lei sbuffa, e protesta che lo può ben portare un suo fratello. Il quale da un’altra stanza le grida scocciato: «Puoi anche tu, però, far qualcosa».
E ecco, la casa che era silenziosa si rianima e vive: le scarpe abbandonate in ingresso, il pc subito acceso, il coperchio sulla pentola sollevato, a vedere che c’è per cena. E per quella festa, sabato, «non so cosa mettermi», annuncia lei, grave; e allora bisognerà lasciarsi trascinare di corsa da H&M, e assisterla mentre prova una montagna di vestiti – la sua faccia da bambina nello specchio del camerino, imbronciata se un abito non le sta come deve.
Lei per me è ricordarmi esattamente com’ero, quando uscivo dal liceo nel branco chiassoso dei compagni; lei, per me è una folata di primavera. E solo ora capisco cosa davvero è stato, per mia madre, perdere una figlia di quell’età: la vita stessa, dentro, spezzata. E ora che so, rivedo tanti giorni lontani, e mia madre, da quella morte, irriconoscibile e annientata, e io che, bambina, sgomenta cominciavo ad allontanarmi da lei. Ora capisco, vorrei dirle, quale deserto hai traversato; ora vorrei abbracciarti, in un abbraccio più grande di qualsiasi cosa ci siamo dette, o fatte.
E, zitta, osservo mia figlia, che non somiglia a mia sorella, se non per una stessa grazia adolescente, e per la linea gentile del collo e delle mani. Perdere lei, è un pensiero che non reggo. Inciampata nel buio dei ricordi ne vengo tratta fuori dalla sua voce fresca: «Mamma, mi prepari una cioccolata?» (Già il fatto che mi chiami “mamma”, fra le ombre dei miei pensieri, mi pare una grazia). Volonterosamente allora, in cucina, mi do da fare. «Guarda che la voglio densa!», intima lei dal soggiorno.
È sempre stata prepotente. Come quando mi guarda mentre mi preparo per uscire e mi toglie un vestito dalle mani: «Ti sta da cani», dice, e me ne impone un altro. E io obbedisco, io che non ascolto mai nessuno.
Quando studia a casa con le sue compagne mi ritiro, discreta; mi basta, da lontano, sentirne la voce, e le risate. Allora ringrazio Dio di avermela data. Ma mia madre come ha fatto, come ha potuto, senza quella figlia, continuare a vivere? Non lo so capire. Ma mi pare di saperle, ora, di nuovo insieme. Certamente è così. Altrimenti, vuoto sarebbe, e inutile, il Paradiso.
Foto ragazza da Shutterstock
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