Perché mi candido in Lombardia con Fdi

Di Matteo Forte
18 Gennaio 2023
Correrò alle elezioni regionali portando quella cultura di governo sussidiaria capace di valorizzare le libere iniziative nate dal basso
Matteo Forte firma l'accettazione della candidatura. Correrà su tutta l'area della Città metropolitana di Milano, con Fratelli d'Italia, alle elezioni regionali lombarde del 12-13 febbraio
Matteo Forte firma l'accettazione della candidatura. Correrà su tutta l'area della Città metropolitana di Milano, con Fratelli d'Italia, alle elezioni regionali lombarde del 12-13 febbraio

Caro direttore, voglio approfittare dello spazio che mi concede per spiegare a Tempi e a tanti suoi lettori il motivo della scelta che mi ha spinto, dopo anni da consigliere comunale a Milano, a presentarmi alle prossime elezioni regionali lombarde. Tuttavia non mi preme tanto spiegare la candidatura in sé, che dopo dodici anni di servizio alla mia città trova ragione nell’esperienza maturata e confermata ad ogni tornata elettorale da consensi crescenti, quanto la scelta di presentarmi nelle liste di Fratelli d’Italia.

La risposta più semplice potrebbe essere che il partito guidato da Giorgia Meloni è al momento quello vincente. Eppure per quanti mi hanno seguito in questi anni – dove spesso mi sono trovato ad essere senza paura minoranza nella minoranza (non fosse altro perché mono gruppo all’opposizione) – è da ammettere che questa non è una spiegazione adeguata. E allora, senza troppi giri di parole, voglio dire che mi ha convinto un progetto per il quale desidero spendermi, contribuendo con l’esperienza che ha proprio contraddistinto il mio impegno per Milano.

Quindi il primo motivo che mi muove ad aderire a Fratelli d’Italia non è a dispetto di quel che fino ad oggi sono stato e ho rappresentato, bensì è proprio per quello che sono stato ed ho rappresentato. Nella lunga crisi che ha contraddistinto il centrodestra dopo la fine dell’ultimo governo Berlusconi, l’intera coalizione non ha più saputo riunirsi intorno ad un progetto e ad una visione di Paese. Tanto che ancora era capace di raccogliere consenso, ma non di governare. La spinta populista ha saputo intercettare un malessere, ma allo stesso tempo non ha saputo proporre un progetto di governo e altrettante risposte credibili.

Con l’avvento al governo della prima donna Presidente del Consiglio sembra essersi chiusa dunque una fase e aprirsi quella della fuoriuscita dal populismo. I segnali sono arrivati già da alcune nomine ai vertici dell’esecutivo.

Penso in particolar modo ad una stretta conoscenza di Tempi come Alfredo Mantovano, nominato Sottosegretario a Palazzo Chigi. Tra i fondatori del Centro studi Rosario Livatino, Mantovano è stato in passato Sottosegretario all’Interno, da dove si è occupato di immigrazione e della costituzione del Comitato per l’Islam italiano, che nel tempo ha prodotto una serie di pareri che hanno contribuito non poco ad indirizzare e dare sostanza alle mie posizioni in merito alla realizzazione di nuove moschee a Milano. Per non parlare dei numerosi contributi in punta di diritto su anagrafe e maternità surrogata, che a loro volta mi hanno aiutato ad esprimere valutazioni critiche e mai ideologiche su questioni complesse, quali la registrazione di minori come figli di coppie omosessuali.

Penso poi alla presenza prima nelle liste elettorali e poi al Ministero della Giustizia di una figura come quella di Carlo Nordio, che nelle linee guida per la riforma prevede tra le altre cose la separazione delle carriere e la necessaria revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale ormai «diventata arbitrio». Si tratta di un programma «esplicitamente ispirato a quei principi liberali del diritto penale e del giusto processo», come ha detto Giandomenico Caiazza delle Camere penali, che se effettivamente realizzato «aprirebbe una nuova stagione dopo le storture viste in questi decenni» (cfr. il Giorno, 7 dicembre 2022) e che tanti danni hanno arrecato all’Italia e alle sue istituzioni.

Penso ancora ad Eugenia Roccella alla guida delle politiche familiari e a sostegno della natalità. Nonostante le difficoltà del momento queste politiche hanno già trovato uno spazio importante nella prima manovra finanziaria con: l’aumento del 50% dell’Assegno unico per il primo anno di vita del bambino; la riduzione dell’Iva al 5% per alcuni prodotti per la prima infanzia; un mese di congedo parentale in più e retribuito fino all’80% dello stipendio per uno dei due genitori; un aumento di oltre 120 milioni di euro delle risorse statali destinate alle scuole paritarie e derivanti dalla stabilizzazione dei fondi messi a disposizione dalle precedenti manovre finanziarie.

Segnali importanti, che indicano una direzione insieme alla necessaria tenuta dei conti confermata dalla «progressiva riduzione del deficit e del rapporto debito/Pil» (come rileva criticamente l’Osservatorio della Cattolica, poiché preoccupato dagli aumenti di spesa determinati da fattori esterni come inflazione e rialzo degli interessi sul debito). Questi sono tutti segnali concreti che dicono molto di più di tutte le preoccupazioni di natura ideologica o delle discussioni un po’ vintage sui simboli. Sono tutti segnali che indicano una direzione di governo meno parziale, dove per esempio non si guarda solo all’aspetto economico (per quanto rilevante), ma si tiene conto di una visione dell’uomo più integrale. Una visione per la quale la riforma della giustizia non è in ragione solo della diminuzione dei costi o dell’accelerazione dei tempi del processo, quanto dell’affermazione di princìpi di garanzia che dividono e limitano il potere per tutelare meglio la dignità della persona.

Una visione meno parziale e più integrale, perché consapevole con la Caritas in veritate che «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75) e che non tutto ciò che la tecnoscienza rende possibile fare sia anche giusto fare.

Segnali dunque. O “fatti”, se allunghiamo lo sguardo oltre le elezioni di settembre e andiamo appunto a considerare nomine di governo e numeri della prima legge di bilancio. “Fatti” con cui chi è da sempre alternativo alla sinistra, e pure si è ispirato a quello che Gianni Baget Bozzo aveva definito all’indomani della nascita del Polo della Libertà “liberalpopolarismo”, non può non fare i conti. Di fronte ad una cultura progressista che vede nel “nuovo” qualcosa di sempre meglio rispetto al “vecchio”, fino al fanatismo del Blacks lives matter e della cancel culture che tutto conforma finendo per minacciare la libertà di pensiero, è possibile costruire un’alternativa che sappia sì innovare ma conservando il meglio di ciò che ci viene tramandato dalla nostra storia? Il conservatorismo di cui parla Giorgia Meloni può essere l’ombrello sotto cui trovano una nuova sintesi le tradizionali culture politiche che hanno fatto il centrodestra italiano? La presenza in Parlamento proprio tra le file di FdI di un amico come Lorenzo Malagola, con cui ci siamo passati il testimone nel 2011 a Palazzo Marino, e la possibilità di ricostruire un lavoro comune dentro un partito più grande con i testimoni succitati mi fanno rispondere positivamente a quelle due domande.

È una scommessa. Una scommessa comprensiva della capacità di portare in dote, specie al Pirellone, quella cultura di governo sussidiaria, capace di valorizzare le libere iniziative nate dal basso e in assenza della quale non si fa ma si disfa la Lombardia. Una scommessa su cui ho deciso di puntare.

Matteo Forte

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1 commento

  1. SIMONE BORGHETTI

    Su 11 paragrafi ne utilizza 10 per descrivere (celebrare? decantare?) le “magnifiche sorti e progressive” del governo della prima donna Presidente del Consiglio, palesando quindi una prospettiva totalmente centralista-nazionale della propria scelta a candidarsi alle elezioni regionali.
    Non stupisce che menzioni (quasi di sfuggita invero) la “cultura di governo sussidiaria” solo nelle ultime 4 righe.
    Cordialmente

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