Mani pulite: «Il progetto politico ce l’aveva Borrelli, non Occhetto»

Di Carlo Candiani
22 Febbraio 2012
«In quegli anni la stampa fu di complemento all’accusa. Si instaurò un rapporto di corruzione organica tra i grandi editori dei giornali e la magistratura inquirente». Intervista a Frank Cimini, tra i pochi giornalisti che in quegli anni ebbero il coraggio di uscire fuori dal coro.

Mani Pulite, vent’anni dopo. Si è molto ragionato in questi giorni sul ruolo della magistratura e su quello della politica. Le responsabilità dell’una e dell’altra, cosa è cambiato in quattro lustri e cosa è rimasto identico. Sotto un cono d’ombra è rimasto il terzo fattore che decretò il successo di quella stagione: il ruolo della stampa. Tempi.it ha chiesto un giudizio sulla vicenda a Frank Cimini, giornalista di cronaca giudiziaria, veterano del Palazzo di giustizia milanese, uno dei primi cronisti a “uscire dal coro” sin dai tempi di Tangentopoli.
«La stampa – spiega Cimini a tempi.it – fu di complemento all’accusa. Per Mani Pulite, il dato in più rispetto al passato, fu il ruolo degli editori dei giornali che si salvarono appoggiando mediaticamente l’inchiesta. Io penso che ci fu, in quell’ambito, un rapporto di corruzione organica tra i grandi editori dei giornali e la magistratura inquirente. L’unico grande editore che fu indagato, alla fine, è stato Berlusconi. Indagato in quanto imprenditore che poi decise di fare politica.

Pochi ricordano il clima di quegli anni e l’euforia della stampa a ogni avviso di garanzia.
Intendiamoci. L’interessato appoggio mediatico al pool era anche “aiutato” dall’esistenza di una classe politica corrotta. I politici avevano tirato troppo la corda nell’incassare tangenti e gli imprenditori si ribellarono al sistema.

Perché scoppiò Tangentopoli?
Non solo perché crollò il Muro di Berlino, ma per l’eredità degli avvenimenti degli anni Settanta. Nel contrasto alla sovversione interna, che molti chiamano impropriamente terrorismo, la politica della Prima Repubblica fece uno degli errori più gravi di tutta la sua storia: delegò la soluzione del problema alla magistratura e quest’ultima tolse le castagne dal fuoco alla politica. Una volta che l’arco dei partiti si indebolì, la magistratura saltò al collo degli eletti e disse loro: “Ora vogliamo governare noi il Paese”. In buona sostanza, il progetto politico ce l’aveva Borrelli, non Occhetto! 

Intervistato da tempi.it, Marco Damilano, giornalista dell’Espresso, ha affermato che la stampa non fece altro che fare da cassa di risonanza ad un sentimento popolare che era già realtà.
Questo è senz’altro un aspetto. Ripeto: la corruzione era ormai a livelli non certo fisiologici, però il motivo per cui la magistratura si muove in quel preciso momento è perché aveva colto la progressiva mancanza di autorevolezza politica nei confronti degli elettori. Le notizie di reato si conoscono già da prima del 1992, solo che i magistrati se ne “sbattevano” tranquillamente. Sono stato chiaro?

È cambiato qualcosa nei rapporti tra magistratura e giornali?
C’è ancora una sinergia tra i grandi giornali e la magistratura. Le vedete le celebrazioni di questi giorni, no? Se loro la mettono in questo modo, io, invece, penso che l’unico modo serio, anche se paradossale, di celebrare quella stagione, sarebbe quello di mettere una targa d’oro nella Procura di Milano con le parole intercettate a Pacini Battaglia: “Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato”.

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