
Tre audaci magistrati contro gli «pseudoprocessi mediatici» e l’abuso del bollino antimafia

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Scene da un’inaugurazione di anno giudiziario. Scena numero uno, parla il procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo: «Bisogna bilanciare la riservatezza delle indagini e il diritto all’informazione. (…) I fatti di cronaca giudiziaria maggiormente capaci di colpire l’opinione pubblica non costituiscono soltanto oggetto d’informazione ma addirittura di veri e propri processi paralleli con ricostruzione di luoghi, testimonianze, valutazioni tecniche, che si svolgono sulle varie reti televisive in concomitanza con lo svolgimento delle indagini nella sede propria ed esclusiva, quella giudiziaria. Agli effetti negativi di tali spettacolari esposizioni nell’ambito processuale sono chiari riferimenti in alcune delicate recenti vicende giudiziarie».
Scena numero due, parla il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi: «C’è stata forse una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia, all’auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità. (…) Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari e a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. (…) A questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato».
Scena numero tre, parla la presidente della Corte d’appello di Firenze, Margherita Cassano: «La celebrazione del dibattimento a distanza di molto tempo dal fatto-reato produce un’alterazione della fisionomia complessiva del processo, attribuisce un’impropria centralità alla fase delle indagini preliminari… Parallelamente può favorire improprie forme di supplenza da parte degli organi di informazione mediante la celebrazione di pseudoprocessi mediatici, che determinano un’impropria sovrapposizione tra la realtà e la dimensione virtuale, producono un’innegabile assuefazione emotiva con conseguente annullamento di ogni forma di pietas (…) e calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza creando dei veri e propri mostri mediatici, vanificano il principio di pari dignità di ogni persona, solennemente affermato dall’articolo due della Costituzione».
Ovvietà, direte voi. Per nulla, dico io: pronunciate da tre alti magistrati lo scorso 28 gennaio di fronte ad assemblee zeppe di altri magistrati e giudici, queste parole sono una vera sorpresa. Di più: per chi crede nelle garanzie e cerca di frenare la marea montante del populismo giudiziario, sono una vera manna dal cielo. Raramente si erano sentite critiche e autocritiche così chiare, oneste, serie.
Certo, la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, come sempre, resta la stanca recita delle solite litanie sulla crescente lentezza dei processi, sulle prescrizioni che aumentano, sui giudici che sono troppo pochi, sui cancellieri che mancano, sui soldi che non ci sono… Tutto vero: una palla colossale. Ma il fatto che tre magistrati importanti (e non ancora andati in pensione: quelli a volte lo fanno) si siano avvicinati al microfono e abbiano detto in pubblico cose vere, beh è quasi una rivoluzione.
Foto Ansa
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