L’urgenza di sfilare a Zuckerberg & c. il controllo dello spazio comune

Di Marco Lombardi
12 Gennaio 2021
I nodi cruciali che le istituzioni non possono più ignorare dopo la messa al bando di Trump da Facebook, Instagram, Twitter e social vari
L'account Twitter di Donald Trump sospeso

La dittatura digitale è in piena avanzata approfittando del clima favorevole creatosi dopo Capitol Hill. Dopo che Facebook, Instagram e Twitter hanno accelerato la messa al bando dalle proprie piattaforme di chi è accusato di infrangere le regole private delle company digitali, in nome del politicamente corretto, in molti si sono spostati prima su Parler.com, poi su Gab.com: due social network che si propongono per una alternativa “off the record” rispetto alla censura digitale che avanza.

Immediatamente dopo la sospensione dei profili social di Donald Trump, le major Apple e Google si sono alleate bloccando la diffusione dell’app di Parler, su cui si era trasferito il presidente, sostenendo che, mancando di una politica di moderazione, essa diventasse diffusore di violenza. L’altra notte, l’alleanza si è stretta con Amazon che ha sospeso il servizio server che vendeva a Parler. È possibile pertanto il blocco, almeno temporaneo, della piattaforma.

Come ho detto, questo viene giustificato in nome della lotta alla violenza, accusando Parler di non avere una moderazione. In realtà si è scatenata una guerra per bande in cui le major vogliono garantirsi in esclusiva l’enorme mercato digitale, cacciando ogni possibile concorrenza con la scusa che “lo fanno per il bene dei loro clienti”.

Ovviamente possono farlo: si tratta di privati che vendono servizi ai privati, è legittimo fornire il servizio sulla base di propri indirizzi. Ma le strade digitali sono sempre più strade pubbliche, che determinano la modalità di frequentazione dello spazio comune e, pertanto, non possono essere affidate né alla gestione privatistica non negoziata con le istituzioni né tantomeno possono essere pattugliate dalle milizie private di Facebook e accoliti.

Sottolineo tre punti fondamentali.

1. Questa aggressiva politica commerciale interviene pesantemente limitando sia l’esercizio della libertà personale di espressione sia la possibilità di utilizzo di uno spazio, digitale, comune. È un problema di relazione tra pubblico e privato da risolvere come in altri settori si è cercato di fare. Ne è esempio tutto il settore dei trasporti, sia relativo alla mobilità di persone, beni, informazione o conoscenza.

2. La guerra commerciale in corso sfrutta la degenerazione del politicamente corretto e, in nome di ciò, il privato si arroga il diritto di definire regole pubbliche rispetto alla legittimità di forme di pensiero e di comportamento, regole che competono alle istituzioni. Non solo, emerge una doppia mimesi ancora tutta da scoprire. Quanto la guerra per il monopolio digitale sia una guerra soprattutto di mercato o quanto essa sia una guerra soprattutto ideologica e politica. Sempre che si possa discernere a sufficienza tra i due ambiti.

3. È urgente e necessario che, quanto prima, le istituzioni (inter)nazionali intervengano normando sia lo spazio digitale sia gli operatori del digitale perché siano solo le istituzioni ad avere il controllo legittimo dello spazio pubblico in cui si svolge buona parte della vita dei cittadini. Le company del digitale hanno finora avuto mano libera proprio perché le istituzioni hanno rinunciato a esercitare il loro compito di normare e controllare, affidandolo, per incapacità, comodità e utilità, al privato: questa situazione di delega ha di fatto rinforzato l’atteggiamento dei colossi, Facebook in testa, che hanno sempre preteso più autonomia. È necessario ricollocare ciascuno al proprio posto.

I nodi stanno venendo al pettine, dopo miliardi di tasse non pagate e interventi fintamente morali di aziende a-morali per sostenere il proprio business, è irrinunciabile una presa di posizione immediata delle istituzioni che si definiscono democratiche. Il perdurare della loro assenza dimostrerebbe un’alleanza di fatto che tradisce la loro rinuncia ai princìpi che le fondano.

In sostanza, e credo senza discussione, voglio affermare che qui non si tratta di “pensarla come Trump” ma di avere il diritto di “NON pensarla come Zuckerberg”, almeno su canali diversi da quelli che gli appartengono. Dai quali è comunque opportuno, urgente e saggio migrare verso altre piattaforme.

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Marco Lombardi, autore di questo articolo, è direttore del dipartimento di Sociologia e del centro di ricerca Itstime dell’Università cattolica del Sacro Cuore

Foto Ansa

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