L’ultimo ballo di Musharraf

Di Gian Micalessin
19 Luglio 2007
Massacra gli integralisti a Islamabad, li lascia liberi nelle aree tribali. Il destino del generale dipende da chi si stancherà prima. Washington o gli islamisti

Ora il re è nudo. O meglio lo sono le sue verità. A sciacquarle d’ogni ipocrisia contribuisce il sangue dei 73 fondamentalisti caduti durante l’assalto al “Lal Masjid”, la Moschea Rossa di Islamabad diventata negli ultimi sette mesi la roccaforte e il simbolo dell’integralismo pachistano. Se le forze radicali sono così pericolose e così pericolosamente in crescita come il generale Pervez Musharraf fa credere allora il suo destino è segnato. Dopo il massacro alla Moschea Rossa il suo problema non sarà vincere le presidenziali di fine anno, ma arrivarci vivo. Se invece nulla succederà e la rivolta integralista si limiterà ai proclami del numero due di al Qaeda, Ayman al Zawahiri e a qualche attentato fuori bersaglio, allora bisognerà chiedersi quanto valgano le paure e le parole di Musharraf.
La Moschea Rossa è insomma un’insanguinata cartina di tornasole. Se l’uccisione dello sceicco Abdul Rashid e dei suoi discepoli non infiammerà le anime fondamentaliste bisognerà chiedersi perché Musharraf ed i suoi onnipotenti servizi segreti abbiano atteso tanto per osare. Già oggi c’è da chiedersi come mai i portavoce dei talebani rifiutino di commentare gli avvenimenti di Islamabad. Yousuf Ahmadi, la voce talebana sempre pronta a discutere di tutto al telefono satellitare, ha già fatto sapere di non aver sufficienti informazioni per commentare gli avvenimenti di Islamabad. «Siamo troppo impegnati in Afghanistan e non siamo abituati ad interferire nelle vicende degli altri paesi», fa sapere con un equilibrismo degno della Commissione Europea. Certo è che nell’ultimo anno i militari pachistani si sono ben guardati dal colpire i santuari del terrore integralista che – dal Waziristan all’agitato fronte tribale del nord ovest – alimentano il ritorno talebano in Afghanistan. In quelle regioni, invece di agire con la stessa determinazione dimostrata nella capitale, il generale ha preferito, lo scorso settembre, firmare un accordo di compromesso con i capi tribali. Un accordo trasformatosi in via libera alle offensive talebane in Afghanistan a stento arginate dalla Nato.
Nel 2005, stando alle maliziose soffiate della Cia al New York Times, il generale presidente ed i suoi servizi segreti avrebbero fatto anche di peggio bloccando all’ultimo minuto un’operazione della Cia nel Waziristan destinata a garantire la cattura di Zawahiri e dello stesso Osama Bin Laden. Queste sospette e ripetute indecisioni stanno spingendo gli analisti di Langley ad una serie d’impietosi calcoli. Il primo è una semplice equazione destinata a quantificare il costo e il reale valore dell’amicizia con Pervez Musharraf. I costi sono facilmente calcolabili. Soltanto i finanziamenti per la lotta al terrorismo riversati dal 2001 ad oggi nelle casse del Pakistan ammontano ad oltre dieci miliardi di dollari. Il valore reale di questi investimenti è, però, assai deludente. E non solo nella lotta al terrorismo. Oltre a non aver sloggiato al Qaeda dal Baluchistan, dal Waziristan e dalle agitate province tribali del nord ovest e non aver bloccato le infiltrazioni dei talebani il generale presidente non ha neppure impiegato quel flusso di dollari per migliorare la propria immagine politica e l’incerta situazione economica del paese. L’economia pachistana è un po’ il simbolo della scarsa lungimiranza di Pervez Musharraf. Pur sognando di affrancarsi dall’immagine di generale golpista per trasformarsi in autentico presidente eletto il Musharraf ha fatto ben poco per conquistarsi un diffuso consenso sociale.
Quei dieci miliardi di dollari in aiuti militari e gli altri miliardi destinati allo sviluppo economico del paese non hanno contribuito a rafforzare l’agricoltura, da cui dipendono le entrate del 65 per cento della popolazione, o la primitiva industria pachistana. Gran parte di quel fiume di dollari ha alimentato banche, assicurazioni e società di servizi. Grazie a quegli investimenti in settori ad alta redditività i circoli vicini al presidente hanno moltiplicato il denaro, ma non hanno sviluppato il paese. La classica banalità dei ricchi sempre più ricchi e dei poveri sconsolatamente poveri si è confermata realtà. La disparità sociale non è l’unica causa del diffondersi del fondamentalismo, ma la progressiva, effervescente, occidentalizzazione di città come Karachi, Islamabad e Lahore a fronte di una stagnazione delle aree tribali non ha aiutato a combattere il fenomeno.

Il generale sempre più solo

Sul fronte politico è andata anche peggio. La scarsa disponibilità a confrontarsi con le regole istituzionali è emersa lo scorso 9 marzo quando Musharraf ha rimosso per decreto il capo della Suprema Corte Iftikhar Mohammed Chadhry. Quel gesto nei confronti di un giudice poco disposto ad assecondare le sue manovre per assicurarsi la vittoria alle presidenziali rischia di rivelarsi l’errore più grave del generale presidente. La violenta repressione delle manifestazioni d’appoggio a Chaudhry, costate la vita, il 12 maggio, a oltre 40 persone, hanno non solo trasformato il giudice nel simbolo dell’opposizione democratica, ma hanno anche costretto il presidente ad agire con uguale determinazione nei confronti degli integralisti della Moschea Rossa. Per un presidente pronto a falciare gli oppositori sarebbe stato singolare subire i proclami di un gruppetto di fanatici asserragliati a pochi isolati dal quartier generale dei propri servizi segreti.
Questa fuga in avanti l’ha però trasformato in un uomo sempre più solo. Sia all’estero che in patria. Se gli Stati Uniti s’interrogano sulla sua utilità, il Partito della Lega Musulmana Pachistano si chiede se sia sensato dare ancora fiducia ad un generale che in otto anni di potere assoluto non ha saputo crearsi un briciolo di consenso autonomo. Ed ha, nel frattempo, dilapidato nell’abbraccio con Washington il tradizionale sostegno delle forze integraliste. I potentissimi servizi segreti dell’Isi, ridimensionati da Musharraf dopo l’11 settembre, sono diventati paradossalmente i maggiori sostenitori di un ritorno al sistema partitico. Quel sistema, rinvigorito da una moderata iniezione di democrazia eviterebbe, in fondo, il controllo di un presidente reso più forte dall’investitura popolare e ridarebbe loro mano libera sul fronte afghano. I generali ai vertici delle gerarchie militari spingendo all’estremo l’inveterata abitudine di colpire con il pugno di ferro qualsiasi oppositore sembrano quasi far di tutto per spingere verso il baratro l’ex commilitone. In queste condizioni la corsa alle urne del generale che sognava un’investitura popolare rischia insomma di bloccarsi ben prima della meta e trasformarsi in una solitaria, quanto applaudita, uscita di strada.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.