Luciano Violante: da magistrato moralizzatore a nemico dei pm all’Ingroia

Di Laura Borselli
14 Aprile 2013
Com’è che il “capo” dei magistrati che volevano moralizzare l’Italia è diventato il primo fustigatore delle toghe militanti?

«Violante è come Via col vento. Ogni volta ti emoziona». La perfidia del commento di Michele Santoro a Servizio Pubblico è superata solo da uno dei celebri soprannomi coniati da Dagospia. Il sito di Roberto D’Agostino, infatti, rubrica ogni sua dichiarazione come esternazione di “Violante 1 a Violante 2”. Generalmente seguono bacchettate al protagonismo dei magistrati, proclamazioni d’urgenza di riforme da fare con quel Berlusconi che la sinistra deve battere per via politica e non giudiziaria. Un Luciano Violante che, insomma, sembra parlare come se non fosse mai esistito quell’altro Luciano Violante, l’uomo di legge più volte indicato come il capo del “partito dei giudici” e soprannominato da Francesco Cossiga il piccolo Vishinsky, il simbolo delle purghe staliniane specializzato nel fabbricare accuse su misura per i nemici del dittatore.

Ex pm antiterrorismo nella Torino degli anni Settanta insieme a Giancarlo Caselli, ex parlamentare comunista, ex presidente della Camera, è passato da figura di punta di una magistratura consapevole di svolgere un compito cruciale nella riforma dell’Italia a fine analista dei danni del protagonismo delle toghe. Chi ne sottolinea le evoluzioni (o contraddizioni) ha gioco facile e generalmente comincia dal Craxi definito «latitante» nel momento della morte al «capro espiatorio» di anni più tardi. Il nodo della figura dell’uomo è in effetti tutto nella sua concezione della giustizia. Cambiata grazie all’esperienza degli anni, per gli estimatori. Mutata camaleonticamente per cucirsi addosso il profilo di uomo per la stagione del dialogo, secondo chi farebbe di tutto pur di sbarrargli lo scranno più alto, quello della presidenza della Repubblica, che oggi (che è tra i 10 saggi scelti da Napolitano) sembra incredibilmente alla sua portata.

Tra chi non lo sopporta c’è, appunto, il clan Santoro-Ingroia-Travaglio e tutta l’area che si riconosce nella Repubblica dell’editorialista Barbara Spinelli e che per il Colle gli preferisce Stefano Rodotà. La pistola fumante della connivenza col nemico è il discorso alla Camera del 2002. Il “grande classico” (Via col vento, appunto) in cui invitava Berlusconi alla pacificazione, ricordandogli che la sinistra al governo non gli toccò le televisioni né lo rese ineleggibile.

Il cuore della sua visione della giustizia si trova in un volumetto (Magistrati) pubblicato per Einaudi nel 2009 in cui in copertina si cita Francesco Bacone: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono». L’ex pm che nel 1976 mise in galera Edgardo Sogno per un inesistente progetto di golpe bianco, qui non solo critica il protagonismo dei suoi ex colleghi e pure la collateralità con i media amici, ma certifica il sostanziale fallimento di una rivoluzione in cui lui stesso aveva creduto. Violante mette in discussione il principio, che tanta bella gioventù togata aveva sposato insieme a lui, che il magistrato dovesse realizzare una società migliore, più giusta, a prescindere dal Parlamento, quasi a dispetto di esso e in nome della Costituzione. Nella giustizia italiana riformata dopo il fascismo si apre una stagione in cui quello del magistrato non è un mestiere ma una missione: «La magistratura – scrive Violante – trasformò profondamente il proprio ruolo. Stefano Rodotà colse felicemente questa trasformazione osservando che la magistratura, da “istituzione della stabilità”, diventava “istituzione della trasformazione”».

Ebbene il Violante di oggi ritiene che «nella pratica quotidiana il magistrato deve privilegiare la certezza del diritto e della sua interpretazione rispetto alla propria creatività professionale; deve rispettare l’autonomia della politica e dell’amministrazione rispetto alla tentazione di costituirsi come guardiano-protettore della comunità nazionale; deve far prevalere il senso del limite della giurisdizione rispetto alle luci abbaglianti del moralismo giuridico».

Parole sacrileghe per coloro che considerano ancora necessari i muscoli del potere giuridico come compensazione della flaccidità della politica. In questi ambienti lo spauracchio di un Violante al Quirinale rende digeribile persino D’Alema. I giochi per il Colle sono senza frontiere.

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