Loris e Mango (o di un’informazione che ci acceca senza alcun rispetto per le ombre intangibili)
Sarà colpa mia che non son pratico del mestiere, ma mi risultano sempre un po’ indigeste le cronache dei giornali sui fatti di sangue. Prendete il caso del piccolo Loris, di cui parlano i quotidiani in questi giorni – ma identico ragionamento potete farlo su un qualsiasi assassinio del recente passato in cui sia stato coinvolto un minore. Oppure prendete il caso del cantante Mango, morto per un malore sul palco. In rete si mettono video e foto (persino quelle di un minore di otto anni), si rovista nei fatti privati di persone che – dice la legge italiana – sono solo degli indagati, ci si allunga in grandi articolesse sulla società italiana, la perdita dei valori, le espressioni facciali dei protagonisti.
Poi, di solito, dopo che per settimane si è vivisezionato il caso, scatta la “fase due”: e cioè una noiosa autoanalisi collettiva sui limiti che dovrebbe avere il diritto all’informazione, la tutela della privacy, lo scandalo delle notizie riprese sui social network da un popolo di cretini che, condividendole, ha dato sfogo a bestiali istinti primordiali.
Ma pensarci prima?
Cioè, dico, se i giornalisti ci pensassero “prima” a come diffondere una notizia? Siamo certi che un certo “accanimento” sui fatti di cronaca sia il modo corretto di fare informazione? Non parlo di noiose questioni deontologiche (robe buone per i convegni che, come si vede poi dal caso di Loris, nella pratica sono aggirate da tutti), ma di un minimo buon senso e, soprattutto, di un efficace modo di raccontare la realtà – che, poi, dovrebbe essere il talento di chi fa questo mestiere.
Conservo nel cassetto il ritaglio di un articolo del Foglio su cui era riportato un articolo di Francesco Costa su ilpost.it.
Eccolo:
Sono stato qualche giorno in Inghilterra. Ho letto il Guardian di carta. (…) C’è stato un brutto caso di cronaca, poco fuori Londra. Hanno trovato tre bambini disabili morti nella villa di lusso dove abitavano con la madre, casalinga di 42 anni, mentre il padre – agente di borsa – era in visita da alcuni parenti all’estero insieme alla figlia grande. La mamma era a casa coi bambini ed è stata arrestata, non ci sono altri sospettati. Immaginate come verrebbe trattato un caso del genere dalla stampa italiana. La famiglia ricca e benestante, la villa, il bel quartiere; la moglie sola a casa che ammazza i figli disabili; il padre che lavora nella finanza e passa più tempo in ufficio che a casa. Immaginate i titoli, le figure retoriche, le analisi da quattro soldi, le interviste agli psichiatri, i sociologi scatenati, gli editoriali sui soldi che non fanno la felicità e cose del genere. Il Guardian dedica alla storia l’intera pagina 3. Il titolo dell’articolo è: “Woman arrested after three disabled young children found dead at home” (Una donna è stata arrestata dopo che tre bambini disabili sono stati trovati morti a casa).
Niente “la strage”, niente “l’orrore”, niente “la tragedia” e cose del genere. Niente aggettivi tipo “agghiacciante”, “inimmaginabile”, eccetera. L’articolo è scritto da un giornalista che vuole dare le notizie, e non da un giornalista che crede di essere Hemingway, e quindi non contiene metafore, dettagli strappalacrime, esercizi di stile, enfasi drammatica, tentativi di fare letteratura. Comincia così, per capirsi: «Una donna di 42 anni è stata fermata perché sospettata di omicidio, dopo che tre bambini sono stati trovati morti in un’abitazione. I corpi sono stati trovati in una camera da letto di una grande proprietà a New Malden, sud ovest di Londra, dove abitano Gary Clarence, finanziere della City, sua moglie Tania, e i loro quattro figli».
Siccome la polizia ha detto solo che “una donna” è stata arrestata, senza diffondere le generalità, il Guardian non dice direttamente che la donna arrestata è la madre dei bambini; scrive solo quello che sa, e non le deduzioni. È stata arrestata una donna nella casa dove hanno trovato i bambini morti. Nella casa, dicono i vicini, viveva una famiglia: un uomo, una donna, quattro figli di cui tre disabili. Poi va avanti ricostruendo la storia della famiglia in questione, sempre in modo molto asciutto e con tatto, dopo aver parlato con vicini di casa, amici e conoscenti.
Volete un altro esempio? Ieri su Italia Oggi il corrispondente da Berlino Roberto Giardina, ragionando sul caso Loris, ha fatto questo esempio:
Prendiamo l’ultimo numero della Bild Zeitung, quotidiano da 13 milioni di lettori, che vive di gossip e di scandali, ma è più serio di quel che sospettiamo. Un marito spara in faccia alla moglie da cui sta per divorziare, si chiama Carsten e ha 30 anni. Due fratelli, presentati come gangster, assaltano i poliziotti che li fermano per un controllo di velocità a Berlino. Sono Kalin e Abou. A Offenbach avvengono i funerali di Tugce, 19 anni, la ragazza turca uccisa a pugni per aver tentato di difendere due adolescenti importunate da una banda. Poi, apprenderemo il suo cognome, perché giustamente diventa un’eroina. Il suo probabile assassino si chiama Sanel M., ha diciotto anni. E così via.
Per i cognomi basta l’iniziale con un puntino. Certamente, amici, vicini, nel paese o nella cittadina sanno chi sono, ma se questa norma fosse stata rispettata in Italia, milioni di lettori non conoscerebbero il cognome dei protagonisti dei recenti fatti di cronaca a cui giornali e tv hanno dedicato spazio e tempo, quello di Stasi o di Sollecito, tra l’altro poi assolti. Siano veramente innocenti o meno non dovrebbe avere importanza.
In Italia esiste un Garante per la privacy: si chiama Antonello Soro e, come nota Giardina, forse non legge neanche i giornali. O, se li legge, non interviene. In Italia esiste l’ordine dei giornalisti il cui presidente Enzo Iacopino – che abbiamo intervistato ieri – un po’ si barcamena, un po’ dice che «non bisogna spiare dal buco della serratura». E, ne sono certo, questa sarà la linea che prenderanno tutti i quotidiani quando si sarà esaurita la miniera delle informazioni su Loris. E magari ci organizzeranno anche un bel corso di aggiornamento per giornalisti. Poi, al prossimo caso di un minore ucciso dai genitori, la ruota ricomincerà a girare.
È questa l’informazione oggi in Italia. La stessa che, poi, come nel clamoroso caso dei pedofili e assassini della Bassa Modenese, si “scorda” di avvisarci che non erano né pedofili né assassini. Scusate, vi ricordate tutti quei particolari orribili che per anni vi abbiamo raccontato sui bambini seviziati con le frasche nel parchetto vicino alla scuola? «Ecco, erano balle» dovrebbero scrivere oggi. Ma non lo scrivono.
Senza star qui a tirare la morale della fiaba, forse sarebbe almeno il caso di interrogarsi su un tipo di informazione che oggi in Italia, dalla cronaca alla politica, s’è arresa ad aggiungere gli aggettivi e le iperboli ai mattinali della polizia e ai faldoni delle indagini. Ma è tutto un imbroglio, un’illusione ottica di chi crede che basti illuminare tutto con un faro per riuscire a comprendere cosa accade sul palcoscenico del mondo. Ma come tutti sappiamo, una scenda inondata di luce non è per questo più visibile di una totalmente al buio. Per distinguere le cose occorrono le ombre. E le ombre vanno lasciate, non tolte. Se le togli, non puoi più distinguere né forme né sagome. È una questione di rispetto della realtà e del criterio con cui la si interpreta. Due princìpi che non sono scritti su nessuna carta deontologica o contratto giornalistico.
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3 commenti
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La responsabilita’ e’ anche un po’ nostra, di lettori avidi abituati al truculento e alla notizia top.
Dovremmo incominciare a leggere quotidiani piu’ attenti ai titoli e all’informazione corretta…
… magari evitando di leggere quel def***ente di Gramellini, che su “la stampa” tocca il fondo dell’essere umano (intendo lui, non il fratello di Mango o la mamma di Loris).
Imporre il silenzio stampa sui casi di cronaca coi minori a parte uno spazio precisato di righe. Vietare i funerali alle telecamere. Vietare in essi qualsiasi aggiunta para od antiturgica spettacolosa o emozionante. Tenere segreta la sepoltura del assassinato.