L’occhio del ciclone

Di Gian Micalessin
14 Dicembre 2006
Fermare l'Iran, salvare il Libano, rifare l'Iraq. La chiave di volta sta ancora nel conflitto israelo-palestinese che brucia da 58 anni

Brucia da 58 anni. È la madre di tutte le guerre mediorientali, la tomba di ogni piano di pace. George Bush e i suoi sognavano di poterla ignorare. Ci finirono dentro mani e piedi dopo l’11 settembre e Bush jr. fu il primo presidente americano ad assumersi l’impegno di una soluzione finale basata sulla nascita dello Stato di Palestina. Subito dopo venne sommerso dalla crisi irachena, dalla sfida nucleare iraniana, dalla scomparsa di Ariel Sharon, dalla vittoria dei fondamentalisti di Hamas alle elezioni palestinesi del 30 gennaio 2005. E ora la commissione Baker, messa in piedi per regalargli una soluzione ai guai iracheni, gli rifila nuovamente la patata bollente. «Gli Stati Uniti non possono raggiungere i loro obiettivi in Medio Oriente senza affrontare direttamente il conflitto arabo-israeliano e l’instabilità generale», recita il rapporto della commissione presieduta da James Baker, il decano della grande politica americana resuscitato dai sarcofaghi dell’era di Bush padre. Come dire: tutto da rifare.
I problemi su quel fronte incominciano con l’instabilità politica dei due contendenti. Israele soffre ancora la scomparsa del gigante Ariel Sharon. Il suo successore Ehud Olmert non è l’uomo delle grandi soluzioni. Quando fu eletto lo scorso marzo giurò di voler proseguire il programma del suo mentore portando alla vittoria Kadima, il nuovo partito di centrodestra progettato da Ariel Sharon per liberarsi dal controllo degli estremisti del Likud. La sua corsa si fermò dopo le elezioni. Da allora l’ambizioso piano di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania pensato da Ariel Sharon come naturale conseguenza del ritiro da Gaza si è trasformato in un sogno impresentabile. La vittoria dei fondamentalisti di Hamas, il continuo lancio di missili dalla Gaza “liberata”, il rapimento di due soldati sul confine libanese e i 34 giorni di sanguinosa guerra estiva hanno messo fine a qualsiasi ipotesi di ritiro. Soprattutto di ritiro unilaterale come furono quello di Gaza voluto da Sharon e quello dal Libano progettato e realizzato, nell’estate del 2000, dal laburista Ehud Barak. Quelle due parole suonano oggi per gli israeliani come un’eresia, come la garanzia di un fallimento. Nessuno però ha ancora capito con quali sostituirle. Men di tutti Ehud Olmert.

Un cerotto su un tumore
Dal quindici agosto scorso, quando Israele uscì dal tunnel della guerra senza aver raggiunto nessuno dei propri obiettivi, il premier è impegnato in una quotidiana battaglia per la sopravvivenza politica e non ha più fiato per nuovi piani di pace. Il cessate il fuoco concordato due settimane fa con il presidente palestinese Mahmoud Abbas è solo un cerotto su un tumore. Una soluzione transitoria senza i contenuti, le idee e le energie indispensabili per trasformarla in piano di ampio respiro. Mancano soprattutto gli uomini in grado di garantirne il successo.
Ehud Olmert dopo aver praticato l’unilateralismo spinto insegnatogli da Ariel Sharon è già tornato all’antica ricetta della pace concordata. Il problema è con chi e soprattutto dove. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas è un’insegna davanti a una stanza vuota. Il presidente non c’è. E quando c’è, non se lo fila nessuno. È un manichino ereditato dall’era di Yasser Arafat, un grigio signore che sembrava saggio e diligente per aver vissuto all’ombra del raìs. Ma il raìs progettava, comandava, trattava. Lui eseguiva. Mahmoud Abbas è oggi una rinsecchita foglia di fico messa a coprire il dramma di Fatah, il partito fondato dal raìs e trasformato in una docile macchina di comando. La tragedia di una classe dirigente corrotta, affamata di denaro e potere. Il raìs li aveva scelti uno per uno. Aveva distribuito loro cariche e ricchezze, armi e impunità. In cambio aveva preteso obbedienza incondizionata. Scomparso Arafat è scomparsa anche Fatah senza lasciare successori. La formazione moderata al cui interno tutti cercano il leader del rinascimento palestinese è solo un ricettacolo di mascalzoni e comprimari corrotti. L’eredità della farsa politica messa in piedi da Arafat per giustificare il suo potere da capotribù arabo.
Se Fatah piange, Hamas ha poco da rallegrarsi. La sua vittoria elettorale ha messo in luce debolezze e incertezze di una formazione apparentemente granitica. Anche lì manca una leadership politica. Nato a Gaza come filiazione dei Fratelli Musulmani nel 1987, Hamas è oggi una sorta di mutazione genetica del fondamentalismo islamico. Il pragmatismo di Ahmed Yassin, lo sceicco tetraplegico padre spirituale della formazione ucciso da Israele nella primavera del 2004, lo manteneva sui binari della lotta contro Israele, evitandogli contaminazioni jihadiste e impedendogli pericolose vie di fuga sulla strada dell’antiamericanismo e dell’antioccidentalismo.
Scomparsi lo sceicco Yassin e Abdel Aziz Rantisi, l’altro esponente che nella Striscia di Gaza teneva le redini della formazione, Hamas è oggi un’idra dalle troppe teste sempre più sensibile all’influenza ideologica e al denaro di Teheran, all’ospitalità e alla protezione offerta da Damasco e alle influenze ideologiche di tutto l’integralismo sunnita. Una formazione capace di vincere le elezioni, ma incapace di uscire dalla trincea del fondamentalismo e trasformarsi in formazione politica. Ismail Haniyeh, il discepolo di Yassin diventato primo ministro dopo la vittoria elettorale dello scorso gennaio, non è riuscito ad imporre una svolta moderata alla dirigenza di Damasco ed è oggi al termine della sua parabola politica. Il governo di unità nazionale tra Fatah e Hamas su cui tutti, all’estero, puntano per rilanciare il dialogo con i palestinesi sembra la trasposizione sul piano nazionale di quanto rappresenta Mahmoud Abbas per Fatah.
Il nuovo governo fantoccio, se Hamas e Fatah troveranno un accordo per la sua formazione, servirà soltanto a giustificare la ripresa dell’assistenzialismo occidentale alla popolazione palestinese. Tutti gli altri problemi resteranno drammaticamente irrisolti. Primo fra tutti l’assenza di un vero leader. Cioè un presidente capace di liberarsi dai ricatti delle milizie armate e dei capipopolo di Fatah, un leader indipendente dai soldi di Teheran, dall’appoggio di Damasco e da quelle influenze del mondo arabo che determinano le scelte della dirigenza di Hamas. In attesa dei due messia capaci di risvegliare i sogni di pace israeliani e palestinesi la ricetta del vecchio “farmacista” James Baker prescrive i vecchi lenimenti, ma non vere medicine. Se il problema per raggiungere un accordo di pace sono i condizionamenti di Siria e Iran allora discutiamone con loro, propone James Baker.

Damasco non sta a guardare
Il problema diventa subito quello di un domino con troppe tessere. Convincere la Siria a esercitare un’azione moderatrice su Hamas equivale a vendere l’anima al diavolo o meglio a vendersi l’anima dei libanesi e costringere qualsiasi governo israeliano al suicidio politico. Il dietrofront su Damasco presuppone la sopravvivenza del regime di Bashar Assad, un ritorno del Libano sotto l’influenza siriana e concessioni israeliane sul Golan. Significa archiviare l’idea di un processo internazionale agli assassini del premier Rafik Hariri manovrati dal regime di Damasco e l’abbandono nelle mani di Hezbollah del premier libanese Fouad Siniora e del suo governo.
Le condizioni ci sono già tutte. Per abbandonare Siniora al proprio destino Washington deve solo voltar la testa per un paio di giorni. Quanto basta ai militanti di Hezbollah per conquistare il palazzo d’inverno dove sopravvive il governo libanese assediato. Poi bisognerà fare i conti con l’egemonia di Teheran e con un asse sciita esteso dal confine iraniano fino alla frontiera settentrionale attraverso i territori iracheni e quelli libanesi. A quel punto la stessa Siria non conterebbe più nulla. Diventerebbe una pedina nel grande asse dominato da una Repubblica islamica con un piede nel club nucleare. La trattativa sul Golan con un Libano di nuovo influenzato da Damasco e controllato militarmente e politicamente da Hezbollah e Teheran diventerebbe a quel punto un puzzle irrisolvibile. Israele minacciato direttamente da un nemico affacciato sui propri confini non potrebbe sbarazzarsi di un altipiano strategico per la propria difesa.
Il piano Baker sembra d’altra parte voler ridimensionare l’estensione dello scontro fra sciiti e sunniti esploso in Iraq e pronto a contagiare il Libano. Arabia Saudita ed Egitto, i capofila del mondo arabo sunnita, non sono disposti in nessun modo ad accettare un’egemonia iraniana estesa dall’Iraq al Libano e sono pronti a tutto pur di arrestarla. I più energici sostenitori del governo libanese di Siniora non sono oggi Parigi e Washington, ma Riyadh e Il Cairo.
Solo la costituzione di un energico asse sunnita può contenere lo strapotere iraniano. Quest’ultima considerazione porta il problema al cuore della terza grande crisi mediorientale, quella all’origine del piano Baker. Il crollo dell’Iraq sotto i colpi della guerra flessibile studiata da Donald Rumsfeld non è stato nell’interpretazione del mondo arabo sunnita la fine di una dittatura, ma la distruzione dell’unica nazione araba sunnita capace di far da scudo al dilagare della grande potenza iraniana. Benché il piano Baker non lo dica apertamente, l’Iraq non è semplicemente un paese squassato da una crisi «grave e in via di deterioramento», ma una nazione pronta a trasformarsi in una colonia di Teheran grazie ad una guerra combattuta dagli americani. Non a caso alla Casa Bianca si sta già studiando il modo per liberarsi del governo di Nouri al Maliki e di tutta la gerarchia di potere sciita per riconsegnare il potere a un premier sunnita. Un progetto politicamente impresentabile, ma imprescindibile per garantire l’abbandono del paese senza lasciarsi alle spalle i rischi di un olocausto sunnita destinato a pesare sulla storia e sulla coscienza dell’America. Soltanto la garanzia di un premier sunnita armato, di un esercito restituito ai vecchi generali di Saddam, già invitati a rientrare nel paese, potrà evitare la divisione del paese e la spartizione del suo tesoro petrolifero tra le milizie sciite filoiraniane e quelle curde. Solo un nuovo potere militare sunnita appoggiato da Arabia Saudita ed Egitto potrà evitare la formazione di un califfato qaedista tra Mosul, Ramadi, Falluja e Baghdad e tenere a freno le brigate sciite. Solo la rinascita di un potere sunnita ai propri confini potrà riaccendere le preoccupazioni dell’Iran e costringerlo a trattare su Hezbollah, Hamas e infine anche sul nucleare.

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