Lo spread sotto i 300 punti è un vanto per Mario (Monti). Ma è a Mario (Draghi) che tutti guardano
La recessione continua. Eccome. In Europa, almeno per ora, di segnali di ripresa non si vede nemmeno l’ombra. I leader degli esecutivi nazionali, nel frattempo, esitano a prendere in mano le redini della politica comunitaria. Mentre, secondo Alessandro Frigerio, che lo dice con un’espressione rubata alle radiocronache ciclistiche, «un uomo solo è al comando»: non si tratta di Fausto Coppi ma di Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, il cui intervento è atteso per oggi. Frigerio, di professione responsabile asset management di Rmj e da tempo attento osservatore dell’andamento dei mercati, osserva che «si tratta della seconda recessione dell’ultimo decennio. Stiamo parlando di una recessione tecnica, ossia di due trimestri di crescita negativa». Una recessione che oltretutto ha iniziato a coinvolgere anche la (un tempo) solida Germania di Angela Merkel. E se la ripresa prima o poi dovrà venire, «è ancora molto difficile» poter dire quando sarà.
Frigerio, oggi alla Bce parla Mario Draghi, lei cosa si attende che dirà?
Credo nulla di nuovo rispetto a quanto non abbia già esternato in altre sue recenti apparizioni. A mio avviso, il presidente dell’Eurotower punterà anche oggi ad attirare l’attenzione dei governi, per spiegare loro che devono riprendere il “feeling” con i mercati. Fino ad ora, infatti, tutto quello che i governi potevano fare l’han fatto. Il problema vero è che la politica in questi mesi non ha saputo trasmettere un messaggio forte ai mercati, per cui il referente unico è rimasto proprio Mario Draghi.
Mario Monti dice di essere riuscito nell’impresa di riportare lo spread sotto quota 300. E ora vuole spingerlo indietro fino a 287.
L’obiettivo di raggiungere quota 287 è puramente ludico, un divertissement matematico. Il picco massimo di spread con Monti premier, infatti, è stato di 552 punti percentuali, ma in ottica infraday ha toccato un valore di 574: scendere a quota 287 gli permetterebbe di dire che ha dimezzato lo spread. E non dimentichiamoci che a luglio, ossia dopo 8 mesi di governo tecnico, lo spread era ancora vicino ai 550 punti, proprio come alla vigilia dell’insediamento di Monti. Basta vedere il primo grafico in pagina. Tutto questo per dire che i mercati fino ad ora non hanno affatto certificato uno stato di migliore salute dell’Italia. E nemmeno si può dire che lo spread è sceso perché c’era Monti. Semmai è stato in concomitanza con l’azione di Draghi (il discorso di Londra è stato proprio a fine luglio) che lo spread ha iniziato a calare.
L’Unione Europea, intanto, ha appena sbloccato i fondi per le banche spagnole (37 mld) e ha dato l’ok a un’ulteriore tranche di aiuti per la Grecia (43). Così la crisi del debito nell’Eurozona va verso una soluzione pacifica? Ed è vero che nel 2013 torneremo a crescere?
È molto difficile prevederlo. Come certifica il grafico qui a fianco, che visualizza con gli istogrammi le variazioni percentuali trimestrali del pil nell’area euro, infatti, quello che è certo è che l’Eurozona è ormai entrata in recessione.
Recessione?
Già, si tratta della seconda recessione dell’ultimo decennio. Stiamo parlando di una recessione tecnica, ossia di due trimestri di crescita negativa, e non lo dico tanto per dire: a onor del vero, infatti, la congiuntura economica è da tempo sostanzialmente recessiva. Pensi che, secondo il centro studi Cepr (Centre for economic policy research), la recessione nei paesi dell’area dell’Euro è iniziata da tempo, nel terzo trimestre del 2011. E la sensazione è che, mentre nel 2008-2009 la caduta dell’economia è stata violenta e così pure la ripresa, questa volta invece la decrescita è lenta e per questo è difficile attendersi una ripresa brillante.
Ma i fondamentali dell’Europa almeno sono positivi?
A prescindere da tali questioni statistiche, è evidente la fragilità per tutto quest’anno dei dati macro europei (vedi l’ultimo grafico riportato in pagina). La linea blu rappresenta l’andamento mensile dell’indicatore €-coin, l’indicatore sviluppato da Banca d’ Italia che dà quasi in tempo reale una stima sintetica del quadro corrente congiunturale europeo. Data la sua tempestività, la stima di €-coin precede sempre di alcuni mesi l’uscita del dato ufficiale sulla crescita del pil nell’area rilasciata dall’Eurostat e si caratterizza per le discrete proprietà anticipatrici del tasso di crescita del pil trimestrale al netto delle componenti erratiche e di breve periodo.
In parole povere?
Se vede, la linea blu è stabilmente al di sotto dello 0 (lo spartiacque della crescita) dalla fine dell’anno scorso. Niente di drammatico, intendiamoci (per lo meno rispetto ai valori vicini a -2 nella crisi del 2008-2009), ma è da tre mesi (agosto, settembre e ottobre) che il valore è stabilmente a -0,3. E questo non fa ben sperare per almeno qualche trimestre, soprattutto alla luce del venire meno del traino della locomotiva tedesca.
Non vorrà farci credere che anche la Germania è in crisi.
Così parrebbe: l’economia tedesca è molto legata a quella della Cina che è in forte rallentamento; l’indice di fiducia delle imprese tedesche è crollato ai minimi dal settembre 2009, il che non è di buon auspicio ed è forse il motivo per cui Draghi ha recentemente affermato che «se finora la Germania è stata ampiamente al riparo dalle difficoltà che hanno investito altre aree dell’eurozona, tuttavia gli ultimi dati indicano che questi sviluppi stanno iniziando ad interessare anche l’economia tedesca». Anche se, per il momento, gli effetti sui mercati non si sono ancora visti. Ma è solo questione di tempo. Con buona pace di tutti gli investitori che, in coincidenza del famoso discorso di Draghi a Londra, hanno cominciato a festeggiare il (momentaneo?) salvataggio dell’euro, mettendo però in secondo piano le dinamiche economiche. Personalmente credo che, se la Cina non dovesse ripartire come ai bei tempi, allora anche la Germania subirà un brusco rallentamento evidente. E lo dice anche Draghi.
Oltreoceano invece come se la passano?
Nessuno si ricorda più di una banale evidenza e cioè che le fondamenta sui cui si appoggia il sistema finanziario americano sono le stesse che si sono rivelate d’argilla nella crisi del 2008-2009. Soltanto che, questa volta, difficilmente potrebbero essere “sostenute” da una banca centrale che ha già fatto ciò che sembrava impossibile ai più. Su quale leva potrebbero agire gli americani nel caso di pesante rallentamento economico e di implosione di qualche istituto finanziario? I dati di cui disponiamo ci inducono a pensare che in caso di terremoto finanziario il sistema americano (e conseguentemente quello globale) si rivelerebbe molto fragile e rischierebbe drammatici epiloghi.
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