L’Italia affronti i suoi “mostri”

Di Mariarosaria Marchesano
19 Giugno 2017
«C’è un fermento positivo, ma se vogliamo stare al passo con gli altri, dobbiamo superare i nostri limiti antropologici». Intervista a Philippe Daverio

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Philippe Daverio, si sa, ha una capacità di osservazione ampia di ciò che gli accade intorno e, dunque, tutto il movimento di idee e progetti su Milano non gli è di certo sfuggito spingendolo a una riflessione che suona pressappoco così: e se fosse la volta buona che questo paese decidesse di guardarsi allo specchio e affrontare i suoi “mostri”? In modo più esplicito, se pur di sostenere Milano nella sua sfida di posizionamento nell’Europa post Brexit, il governo, le istituzioni, la società civile cercassero di risolvere una volta per tutte problemi come l’iperburocrazia, il peso fiscale e le rigidità del lavoro, che, secondo Daverio, rendono l’Italia ancora inadeguata a sedersi a certi tavoli? «Sarebbe davvero formidabile se si innescasse un processo del genere», quasi esulta lo scrittore e storico dell’arte, che è anche autore di note trasmissioni televisive e grande appassionato di architettura, oltre che docente di storia del design e comunicazione. Un vero personaggio del nostro tempo, amato e talvolta avversato per lo stile controcorrente nell’affrontare le questioni dicendo quello che pensa.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Daverio sorride al telefono, si sente; ma passa da momenti in cui fa fatica a contenere l’entusiasmo per un’idea nuova di paese, trainata da una Milano brillante e piena di energia, a momenti in cui prevale il pessimismo di un italiano nato in Alsazia, doppia cittadinanza, due passaporti, fine conoscitore anche del mondo britannico al quale il capoluogo lombardo vorrebbe portare via qualche migliaio di cervelli che oggi lavorano nella City londinese e della quale hanno metabolizzato cultura e mentalità basate su efficienza, merito, pragmatismo…

Si può fare, secondo lei?
After London, Milan! È un’ipotesi incredibilmente interessante.

Milano capitale dell’eurozona?
Ci deve provare. Di fatto è già capitale d’Italia.

E Roma?
La amo, ho casa lì, ma è una città perduta.

Cosa vuol dire?
Perduta nel suo sogno imperiale. Autoreferenziale e incapace di darsi un’identità moderna. Sopravviverà proprio perché è ripiegata su se stessa ricordando Cesare Augusto…

Non pensa che questo progetto per Milano possa lasciare alle sue spalle una scia di malcontento, alimentando anche una contrapposizione con le altre città?
Al contrario. Potrebbe essere trainante per le altre città. A Milano, oggi, se esci per strada senti un gran fermento positivo. La gente è contenta perché prima stava peggio e ora sta meglio. A Parigi, invece, questo non succede perché prima stavano meglio e ora stanno peggio. Questa condizione è un’opportunità di cui l’intero paese dovrebbe approfittare. Non vedo, dunque, il problema della contrapposizione. Detto questo, non sono sicuro che l’Italia sia abbastanza elastica per affrontare e vincere questa sfida.

Che cosa intende con “elastica”?
Per fare un salto di qualità in Europa, il nostro paese dovrebbe superare due grandi limiti: il peso fiscale e una macchina della giustizia farraginosa e lenta. Attività economiche dinamiche, come quelle legate al ruolo di distretto finanziario che Milano vuol darsi, sviluppano un tipo di contenzioso che il mondo britannico è abituato ad affrontare e risolvere in modo efficiente. Queste cose per gli investitori sono importanti.

È in discussione nel nostro Parlamento una legge speciale che prevede sgravi fiscali e si stanno anche studiando soluzioni per affrontare il tema dei contenziosi con una giustizia di tipo privatistico. Forse se ne parla poco perché si temono gli effetti mediatici di questi temi. Cosa ne pensa?
Penso che invece bisognerebbe parlarne apertamente. Capire se vogliamo farcela o meno. L’Italia dovrebbe affrontare i suoi mostri, cioè affrontare se stessa e fare un salto nel futuro. L’enorme conflittualità che abita nel nostro paese è il principale motivo di diffidenza da parte degli investitori esteri. Poi c’è un’altra importante questione.

Quale?
Quella che nel mondo anglosassone e in tutto il mondo occidentale si chiama hiring and firing, cioè la libertà di assumere e licenziare. Se Milano e l’Italia vogliono dialogare con questi mondi, devono assumerne anche la mentalità. C’è un problema legato alla cultura del sistema produttivo del nostro paese. Problema che, ad esempio, hanno dovuto affrontare le banche. Ha mai visto in Italia una filiale di un istituto americano? No. Ma a Berlino ci sono. Ecco che cosa voglio dire: ci dobbiamo obbligare a ragionare su questi temi scomodi e cercare di superare almeno in parte quelli che sono i nostri limiti antropologici.

Riassumendo: lavoro, fisco, giustizia. Cos’altro impedirebbe a Milano di vincere la sfida di capitale europea?
Anche l’housing da noi è faticoso e non può essere così in uno Stato moderno. Il sindaco Sala sta facendo un ottimo lavoro, ma sono uno studioso e appassionato di urbanistica. Non posso tacere sul fatto che a Milano c’è il problema che gli addetti ai lavori conoscono come C3, cioè la destinazione d’uso dei loft. Oggi c’è una zona di ambiguità intorno a questo tipo di immobile che si deve chiarire. Sono o non sono abitazioni a tutti gli effetti?

Perché è così importante?
Se la città dovrà accogliere diciamo 4-5 mila tra dirigenti, banchieri, professionisti con profili elevati più altri 7-8 mila tra impiegati, tecnici, giovani laureati, dovrà porsi il problema di offrire loro un’accoglienza soddisfacente. È chiaro che quelli con i redditi più alti non avranno problemi perché potranno permettersi appartamenti di lusso da 10 mila euro al mese o giù di lì nei quartieri più esclusivi. Ma per tutti gli altri? Ci hanno pensato a dove andranno ad abitare quelli che possono permettersi di spendere 1500 euro al mese di affitto? Si pensi, ad esempio, anche a tutti i giovani che arriveranno a Milano dal resto d’Italia, dal Sud e anche dalle province del Nord per inserirsi nell’indotto.

Quale sarebbe la soluzione, secondo lei?
Momenti di grande rinnovamento economico portano anche rivoluzioni di tipo urbanistico com’è accaduto a Londra e a New York nel passato. I loft sono la soluzione giusta. A Milano ce ne sono almeno 15 mila. Costano molto meno di appartamenti di lusso, ma sono al centro e conservano un fascino di immobile caratteristico. È un’edilizia chic, che al momento vive una condizione di semi-legalità. Il Comune di Milano dovrebbe recepire una normativa per superare tutto questo costruendo una nuova interessante offerta abitativa per i giovani cervelli.

Nonostante gli ostacoli, Milano è arrivata a un momento di forte visibilità sul piano internazionale. È candidata per la nuova sede dell’Ema e per ospitare tutta una serie di attività di tipo economico e finanziario. Vuol dire che un po’ di credibilità all’estero l’abbiamo conquistata. Non crede?
Ma certo che Milano corre. E corre anche il resto d’Italia in cui creatività e spirito d’iniziativa dei privati prevalgono. Design, moda, progettazione: Milano è straordinaria e lo sono altre aree dell’Italia in cui il mondo privato riesce a dare un impulso allo sviluppo e all’economia. Purtroppo, tutto quello che è legato a funzioni pubbliche non va altrettanto bene. Persone come Sala, Maroni e Padoan sono attori positivi che stanno cercando di invertire la tendenza. Spero che questo processo positivo vada avanti.

Esistono altre città attrattive a livello europeo in questo momento?
Non come Milano, ma qualcuna sì, ha delle potenzialità interessanti. Prenda Venezia. Una città straordinaria che avrebbe molta presa se fosse spinta in un processo di visibilità. Basti pensare all’incredibile immobile dell’Arsenale. Ma finché non si deciderà che cosa farne…

@MRosariaMarche2



Foto Ansa

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