L’EVENTO DI UN ALTRO

Roma. Eri partita una mattina, pensando di dovere scrivere della morte di un Papa. Amato, certo. Ma credevi che l’evento fosse quella morte. Torni, attonita, una settimana dopo. Racconta, ti chiedono. Fai fatica, è come dire in poche parole lo tsunami. Ai tuoi figli però vorresti sapere portare due momenti almeno.
Alle cinque della sera, San Pietro gremita sotto un gran sole, da tutto il giorno attende di vedere passare il feretro del Papa per la traslazione. Ed è stata fino a quell’ora una piazza vociante e accaldata, piena di ragazzi e bambini, e quasi non avvertivi la morte, in quella gran luce di primavera romana. Ma, esattamente pochi minuti prima delle cinque, il sole tramonta dietro la basilica. L’ombra si allunga veloce sulla scalinata, e si fanno silenziosi gli uomini: mentre passa, i volti alteri, un plotone di corazzieri svizzeri. Vanno a schierarsi per accogliere il Papa. E allora le facce di tutti in quel silenzio sceso assieme al tramonto si voltano verso il portone di bronzo. Aspettano la processione, e nei canti in latino – grande madre, il latino, che culla il comune dolore di polacchi e italiani, di sudamericani e d’ogni altro straniero – quel silenzio è gravido di attesa, e amore autentico. Questa gente piange davvero quest’uomo. Testimone di un Altro, il cui erede fu sepolto qui, la cui tomba è qui, esattamente al centro geometrico dell’asse di questa basilica. Qui, e non altrove. Guardi il corteo di chierici e sacerdoti e cardinali davanti al Papa: la Chiesa che cammina, ti dici, i vecchi cardinali, e questi ragazzi, chissà chi sono, chissà quali i loro misteriosi destini. Guardi la folla muta, le adolescenti delle borgate, le mamme con i bambini in braccio: e Chiesa noi, mani, facce, brutti ceffi anche, e gente che piange, ma che Chiesa, e come splendidamente viva.
Fenomeno mediatico? Emozioni? Per me, dopo giorni, e anche notti, in San Pietro, queste sono parole da sciocchi. L’inutilità mediatica, la chiacchera a vanvera l’ha fatta molta tv, in questi giorni. Ma non la gente che io ho visto in San Pietro. Non i ragazzi – cassiere, parrucchiere, commesse – che piangevano il giorno della morte, dopo una notte al freddo, sotto il colonnato. («Era un uomo. Di noi gli importava davvero, era l’unico, forse»). Non la folla di romani che all’alba del primo giorno di esposizione ho visto correre, alle cinque, quando è ancora buio fondo, per prendere posto in coda e riuscire poi ad andare al lavoro. Coi figli piccoli in braccio, giù dal letto alle quattro. Immobili, pazienti, nella notte. Per un’emozione? Non credo.
Succede, di capire ciò che si è avuto nel momento in cui lo si è perso. Come quando si perde il proprio padre, e improvvisamente ci si accorge di quanto ci era caro, e unico: molti paiono aver capito di colpo “chi” era questo Papa. L’hanno visto anche nella faccia di Ratzinger, mentre la folla finito il funerale gridava «santo», e lui per minuti lunghissimi immobile, la faccia di tedesco traversata da una tesa, muta commozione. Non era “buono” e non era “simpatico”, il Papa. Era il testimone di un Altro, e solo all’ultimo, essendo noi distratti, in molti – battendoci come una mano sulla fronte – ce ne siamo accorti. E l’evento, a Roma, è stato questo: non la morte, che, a paragone, è stato un fatto minore.
Marina Corradi

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