Articolo tratto dal numero di dicembre di Tempi
Una notte di dicembre del 2018 la signora A., 60 anni, sanissima, in grado di fare 25 chilometri a piedi in una domenica mattina se ne aveva voglia, si svegliò d’improvviso per un dolore acutissimo all’anca destra: un dolore bruciante, come se l’ avesse colpita una freccia. Spalancò gli occhi nel buio: mai aveva avvertito un dolore così tagliente. Si disse che doveva essere successo qualcosa, che era l’inizio di qualcosa. Come se uno sconosciuto arciere l’avesse presa di mira. A. andò in cucina, ingoiò un Tachidol e tornò a letto zoppicando. La mattina, il medico disse che non era niente. In effetti, al pomeriggio il dolore era svanito.
Dopo qualche giorno però A. si svegliò con un violento mal di testa. In bagno, allo specchio, si accorse che un occhio non vedeva bene. Inquieta, prese appuntamento col primo oculista che trovò libero, in una clinica vicino a casa.
L’oculista era anziano e un po’scostante. «Perché è venuta da me, signora?», chiese. «Dottore, vedo male da un occhio». Il medico la guardò freddamente: «La percezione del paziente è soggettiva, e spesso anche fuorviante», sentenziò. Oddio, pensò A., sono cascata male. Cataratta, annunciò infine senza alcun dubbio il dottore. Fiduciosa, A. si fece operare. Quando riaprì l’occhio sinistro ci vedeva meglio, ma aveva dolori acuti alla tempia. Al pronto soccorso una giovane oculista le garantì tuttavia che l’occhio era perfetto.
Poco dopo entrambi gli occhi cominciarono a bruciare, e a dolere davanti allo schermo del pc. Una spossatezza mai provata si impadronì di A.: alle undici del mattino era già sfinita, e in metrò avrebbe chiesto di sedere, se non si fosse vergognata. Lei, che camminava così veloce, improvvisamente faticava a raggiungere la farmacia sotto casa. Le gambe vacillavano. Esami, esami, lastre, tutti in ordine: A. per i medici era in ottima salute. Lei invece sospettava di avere qualcosa di difficile da scoprire. Cominciò, la sera, a trattare con Dio. «Io, lo sai, al mondo non mi sono mai trovata tanto bene. Ci sto, se vuoi, a morire anche questa notte», gli diceva, «ma ti prego, non una invalidità. Non in carrozzella». Dio non rispondeva. A. era sempre più stanca. Finché all’inizio dell’estate non insistette per fare una Pet, la tomografia che vede il cancro.
Le stanze della Medicina nucleare all’ospedale erano sotterranee, fredde, dentro a una luce giallognola. Gli altri pazienti avevano facce pallide, e parevano stare molto peggio di A. Sdraiata dentro il tubo della macchina, lei continuava a trattare con Dio. «In fondo i figli sono grandi, non hanno più bisogno di me. Pazienza, se ho un cancro. Purché si faccia in fretta».
Tuttavia quando andò a ritirare il referto aveva il cuore in gola. Nessun cancro, era il responso, ma tutte le ossa di braccia e gambe “captanti”, cioè infiammate. Segno di una malattia autoimmune, quelle in cui l’organismo attacca le sue stesse cellule, spiegò il medico, che finalmente le credeva. (La maggior parte dei medici oggi crede alle lastre, agli esami, più che a ciò che riferisce il paziente). Autoimmune, pensò A., che concetto interessante: il mio corpo si demolisce, si auto rottama. Come se il mio vero nemico fossi io.
Di nuovo un calo di vista. Altra malattia autoimmune, fu la diagnosi, e cortisone abbondante, per salvare l’occhio. L’estate passò in potenti terapie di ultima generazione, il meglio che la medicina oggi può offrire. A settembre però A. era gonfia, pesta, dolorante, e certi giorni stentava a camminare. Il dialogo con Dio si era fatto teso: «Ti avevo chiesto una cosa veloce, e guardami, sto diventando un’invalida», recriminava. Una mattina sulle scale, di colpo, un ginocchio le si piegò, e A. cadde. Il giorno dopo, salendo sul tram, di nuovo. Uno sconosciuto la tirò su di peso. Stava per piangere. Imparò a fare le scale tenendosi ben salda alla ringhiera, adagio.
Si sentiva vecchia, di colpo. Certi giorni non usciva di casa. Pensava sbalordita a come camminava veloce, appena un anno prima. Si diceva: tutto questo deve volere dire qualcosa. La sera, a letto, riprendeva a trattare: «Anche stanotte, ti ripeto, ma prendi con me il mio vecchio cane, non voglio lasciarlo solo». La mattina, sia A. che il cane erano vivissimi.
Quando le gambe le diventarono tanto deboli che certi giorni non si alzava nemmeno, A. da esasperata si fece meditabonda. «Cosa vuoi?», domandava ora a Dio la sera. «Non riesco più a lavorare, non riesco più a fare niente. Ti ho detto già che, se è per questa notte, va bene. Ma, cosa vuoi da me?».
I farmaci le avevano abbassato le difese immunitarie. Si ammalò di polmonite. Nella radiografia poi si vedeva un’ombra che chissà, bisognava lasciar passare due mesi per fare una Tac. A., ora spaventata, era uno straccio. Tra le coperte, sudata, stordita dagli antibiotici, smise di trattare.
Forse perché era così stanca, finalmente si arrese: va bene, come vuoi tu, facciamo quel che vuoi tu. (In fondo, nel Padre nostro non diciamo «trattiamo», ma «sia fatta la tua volontà». Forse non ci rendiamo conto dell’enormità di ciò che diciamo, pensò).
E se tutto quest’anno, e queste gambe deboli, e gli occhi dolenti, e le ossa a pezzi, fossero servite a portarmi a questa resa?, si chiese. Aspettando la Tac ora A. era più serena. Per strada guardava il mondo con altri occhi. Le belle case del Sempione e del parco, massicce e ottocentesche, sembravano dirle: vedi, noi restiamo, voi uomini, invece, passate in un soffio. Chissà quanti di noi avete visto passare, replicava allora A. alle case: bambini in carrozzina, adolescenti, poi uomini fatti, e padri, e poi vecchi. La vita le sembrava una veloce moviola. Come un colpo d’ala di uccelli già lontani. A ripensarci, a quel «sia fatta la tua volontà» ora si sbalordiva. L’aveva sempre detto, senza capire cosa diceva. L’enormità di poche parole. La vertigine di un totale affidarsi.
Le luci del Natale cominciavano a illuminare Milano. Un Natale ancora, pensava A. Fra un anno sarò guarita, oppure, chissà. Ma quasi galleggiando in una strana pace – ora che, dopo tanto trattare, alla freccia di uno sconosciuto arciere si era arresa.