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L’emergenza carceri e l’antimafia mediatica

È sconfortante che al centro del dibattito politico oggi vi sia lo scontro tra Bonafede e Di Matteo, e non la drammatica situazione delle carceri

Alfredo Mantovano
06/05/2020 - 14:37
Interni
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Da sinistra, il Procuratore nazionale antimafie, Federico Cafiero De Raho, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, l’ex pm Nino Di Matteo

Tratto da Osservatorio Van Thuan – Sarebbe riduttivo leggere la diatriba fra il ministro della Giustizia e l’ex P.M. Di Matteo decontestualizzandola da quella che fin dall’inizio della pandemia si è manifestata come l’emergenza nell’emergenza: e cioè la tragica situazione del sistema penitenziario italiano. Per il quale, come per ogni altro settore della nostra vita istituzionale, Covid-19 non ha fatto emergere problemi nuovi, bensì ha radicalizzato ed enfatizzato questioni che si trascinano da anni. Il peggio che può accadere è che, dopo che il Guardasigilli ha riferito in Parlamento e l’attuale componente togato del CSM sarà rientrato in sé stesso, la vicenda carceri riprenda a essere marginale, nonostante quello che ha manifestato negli ultimi due mesi. Ripercorriamoli in ordine cronologico.

29 febbraio. A tale data in Italia risultano detenute 61.230 persone, oltre 10.000 in più rispetto alla capienza, in violazione delle direttive europee che fissano il minimo di 3 mq per recluso al netto delle suppellettili, e delle sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte EDU. Il sovraffollamento potrebbe essere aggredito in vario modo: sulla premessa che quel giorno i detenuti stranieri erano 19.899 – un terzo del totale -, facendo funzionare gli accordi conclusi con le Nazioni di provenienza per far espiare la pena per es., in Albania o in Romania (solo la restituzione a tali due Paesi di origine libererebbe quasi 5.000 posti); realizzando nuovi edifici penitenziari; rendendo disponibili i c.d. braccialetti elettronici per gli arresti domiciliari, la cui frequente non reperibilità impedisce al detenuto di proseguire la custodia nella propria abitazione, pur quando ve ne sarebbero i presupposti; rendendo operative le espulsioni degli stranieri irregolari quale misura alternativa al carcere. Tutto ciò non esige nuove leggi: richiede azione di governo, che evidentemente è mancata.

Fine febbraio-inizio marzo. In parallelo alla diffusione del virus il Governo adotta non già misure straordinarie deflative – ragionevolmente ipotizzabili per ridurre il contagio -, bensì restrizioni nei contatti fra i detenuti e i familiari in visita. Il mix di timore di contagio e di limitazioni dei colloqui diventa una miscela esplosiva, la cui gravità non viene apprezzata dal ministro e dai vertici del DAP. L’ordinamento avrebbe consentito all’Esecutivo, magari dopo una interlocuzione col Parlamento, un’azione complessiva tesa restringere le maglie della custodia in carcere, a rinviare – in relazione alle condanne a pene meno elevate – il momento della esecuzione della pena, a rendere fruibile la detenzione domiciliare per gli ultimi 18 mesi di espiazione, come la legge già prevede, fornendo i braccialetti elettronici necessari e rinforzando con necessarie applicazioni i Tribunale di sorveglianza. Ma anche questo è mancato.

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8-9 marzo. Esplode la rivolta, il cui bilancio sono 13 morti, tutti fra i detenuti, numerosi agenti penitenziari feriti, oltre 4.000 posti resi inservibili dalla distruzione di ambienti e di mobili. A distanza di due mesi il ministro della Giustizia, a parte una informativa al Parlamento, durante la quale si è limitato a raccontare l’accaduto, non ha ricostruito le causali delle rivolte, non ha chiarito per quali ragioni non erano state adottate le misure necessarie per prevenirle (posto che erano prevedibili e ve ne erano stati i segnali), né per quali ragioni – permanendo per i detenuti le restrizioni ai contatti con l’esterno – nelle settimane seguenti la pace è tornata d’incanto negli istituti di pena.

1° aprile. La deflazione, omessa dal Governo, viene realizzata dalla magistratura. In questa data il Procuratore generale della Corte di Cassazione invia una circolare ai Procuratori generali delle Corti di Appello con cui, distinguendo fra i provvedimenti di custodia cautelare in carcere ancora da emettere, quelli già emessi, la pene definitive di cui far iniziare l’espiazione, e quelle già in corso di esecuzione, fornisce per ciascuna di tali categorie indicazioni correlate all’emergenza in atto; e quindi perché la custodia in carcere sia limitata alla stretta necessità, l’esecuzione delle sentenze definitive per pene non elevate sia procrastinata, e nella fase di esecuzione già in atto si facilitino le misure alternative alla detenzione, in primis l’affidamento in prova al servizio sociale. L’intervento del P.G. della Cassazione supplisce all’inerzia del Governo e punta all’utilizzo nella estensione massima di istituti già presenti; nei giorni precedenti e in quelli successivi non mancano, sui differenti piani toccati dalla sua nota, ordinanze di Gip che negano la custodia in carcere per ragioni espressamente collegate al Covid-19 e provvedimenti di giudici di sorveglianza che dispongono la detenzione domiciliare per motivi di salute, o anche di prevenzione del contagio. E se la nota del P.G. della Cassazione ha il pregio della visione d’insieme e della prospettazione di limiti da non valicare, la moltiplicazione di singoli decreti o ordinanze prospetta un quadro frammentato, confuso e contraddittorio.

Si deve all’iniziativa dei magistrati, non ad altro, se in meno di due mesi la popolazione carceraria diminuisce di 7.572 unità, passando dalle 61.230 persone presenti – come si diceva – al 29 febbraio alle 53.658 presenti il 26 aprile: ricavo quest’ultimo dato dal Garante dei detenuti, perché il sito del ministero della Giustizia è fermo all’aggiornamento del 31 marzo!

Sono soprattutto le scarcerazioni di personaggi significativi della criminalità mafiosa che riattivano le polemiche. In un terreno nel quale l’equilibrio fra le esigenze di salute del detenuto e la difesa sociale da soggetti di elevata pericolosità è difficile da raggiungere pur al di fuori di contesti emergenziali, tanto da imporre un delicato e approfondito esame caso per caso, in più d’una occasione il DAP non risponde alla richiesta dei magistrati di sorveglianza di indicare le strutture infracarcerarie idonee a curare le patologie di volta in volta dichiarate dal recluso; lo stesso DAP diffonde una circolare con la quale chiede che vengano segnalati i mafiosi detenuti a rischio di salute, che viene letta come sollecitazione a farli uscire dal carcere. E i giudici decidono da sé, spesso monocraticamente, e collocano in detenzione domiciliare, facendo gridare allo scandalo addetti e non addetti ai lavori.

1° maggio. Sono proprio queste polemiche a provocare le dimissioni del Direttore del DAP dr. Franco Basentini. La nomina del nuovo Direttore, il dr. Dino Petralia, non è tuttavia accompagnata a livello di Governo da nessuno dei provvedimenti che potrebbero far fronte ai problemi emersi fino a oggi: se non – col decreto legge n. 28 del 30 aprile – dall’obbligo, al fine di disporre la fuoriuscita dal carcere, della richiesta da parte del magistrato di sorveglianza del parere della Procura distrettuale antimafia o di quella nazionale, a seconda del profilo del detenuto, quando è stato condannato per fatti di mafia. La preoccupazione – da apprezzare – è evitare che condannati per delitti gravi lascino gli istituti di pena; non è invece da apprezzare né il “commissariamento” degli uffici di sorveglianza, né il loro mancato rafforzamento, né che le preoccupazioni non si estendano ad altro, in primis a un sovraffollamento che permane, e che va gestito dal Governo, d’intesa col Parlamento, senza surroghe giudiziarie.

3 maggio. Lo scontro Bonafede/Di Matteo si inserisce nel quadro appena riassunto. E’ sconcertante in sé, certo. Il ministro della Giustizia non ha chiarito le ragioni per le quali, una volta proposto all’attuale componente del CSM l’incarico di Direttore del DAP, ci abbia ripensato dopo appena due giorni. Il dr. Di Matteo non ha spiegato perché, se due anni or sono ha percepito l’interdizione di mafiosi alla sua nomina – fatto che sarebbe di elevata gravità – non lo ha segnalato o denunciato all’autorità giudiziaria: è agevole immaginare che se la vicenda avesse riguardato altri, ed egli ne fosse stato informato come P.M., avrebbe aperto un procedimento, in sequenza con quelli già avviati sul tema “trattativa”. Non c’è solo il tempo trascorso; vi è pure il mezzo scelto: non un rapporto a una autorità sovraordinata – dal Procuratore della Repubblica eventualmente competente al Capo dello Stato, che è pure presidente del CSM -, bensì un intervento telefonico in una trasmissione tv.

Ancora più sconfortante è però che al centro del dibattito politico oggi vi sia questo scontro, e non la situazione delle carceri italiane, la cui drammaticità resta inalterata; e, con essa, lo squilibrio istituzionale di una politica di deflazione penitenziaria che invece di essere fatta con leggi e azione di governo, passa da decreti e ordinanze.

Se questi problemi reali fossero presi in considerazione nella loro drammaticità probabilmente non finirebbero in talk show domenicali, e non farebbero entrare nell’Olimpo dell’antimafia mediatica. Ma sono trascorsi un po’ di secoli da quando ci si è accorti che le divinità dell’Olimpo, così aduse ai capricci e ai dispetti umani, alla fine non erano tanto “divine”. E che per far ripartire la civiltà è meglio arare la terra e studiare.

Foto Ansa

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