
Lettere al direttore
Le “sacre domande” sulla tragedia di Afragola

Caro direttore, un semplice pensiero sulla tragedia di Martina Carbonaro.
A quattordici anni la vita è tutta davanti. Ma a quattordici anni tutto può essere anche molto difficile. Non si è più bambini e si pensa di dover già capire tutto. Una bambina, dicono i giornali. Una donna, dice la propria testa, una bella donna. Ma, dice sottovoce la propria testa e il proprio cuore: chi sono? A quattordici, ma anche a diciannove, chi sei? Questa è la grande domanda inevasa. Tu, chi sei? Cosa si aspetta da me questo mondo? Cosa devo essere? Chi voglio essere? Che cosa vuole davvero questo mio cuore?
Il mondo degli adulti spara giudizi e condanne. Suscita odio smisurato verso il mostro maggiorenne e mette in bella mostra l’immagine della piccola minorenne. Il mondo degli adulti s’indigna e chiede a gran voce una nuova (ennesima) legge per arginare il problema. E così, il problema, si rimanda. Si rimanda la domanda su cosa sia questa bellissima e difficile vita.
Il fatto è che certe domande costa troppo farsele. Occorrerebbe dire che a quattordici anni (come a 24, 34…) non è libertà frequentare abitualmente uno squallido casolare per “incontrare” il proprio “fidanzato”. Ma questo non si può dire, anzi, dirlo sarebbe uno schifoso oltraggio alla povera vittima, un ennesimo stereotipo patriarcale che mira a ridurre l’enormità della colpa gettando un’insopportabile ombra sulla bimba bestialmente uccisa. Ma, fuori dalle abbacinanti luci dei social, se si potesse fare un po’ di silenzio, unica voce sensata davanti all’abisso di questa tragedia, si potrebbe tornare a sentire la domanda che i nostri figli sussurrano ogni giorno, ogni minuto, a volte gridandola scompostamente. Mamma, papà, perché ci sono? Mi amate per quello che sono, così come sono? Come si fa a vivere? Cos’è male e cos’è bene? Le sacre domande della vita a cui anche noi, i cosiddetti adulti, spesso non sappiamo bene rispondere, ma che, da adulti, non possiamo e non dobbiamo mai dimenticare, abbracciando ed accompagnando i nostri figli in questa difficile e meravigliosa ricerca.
Andrea Matteoni
Caro Andrea, ho la tua stessa impressione. Quando capitano questi tremendi casi di cronaca – lo aveva notato anche Giancarlo Cesana parlando del caso Cecchettin -, le pagine dei giornali traboccano di particolari spesso inutili e i servizi televisivi indugiano per giorni nel raccontarci lo sgomento di parenti, amici, conoscenti. Non manca mai, poi, l’intervista all’esperto di disagio giovanile o allo psicologo. Un diluvio di parole di cui spesso non rimane nemmeno una goccia di buon senso. Rimane solo la rabbia, la richiesta di vendetta, l’illusione che, con una buona legge, metteremo a posto i demoni che s’agitano nel cuore di ognuno.
Tu riporti la questione al suo nocciolo, suggerendo “sacre domande” che – hai ragione – tutti cercano di evitare. Mi chiedo: perché tutti evitano di porsi questi interrogativi? Perché è da folli porsi una domanda se non si ammette una risposta, almeno come ipotesi. Il problema è che abbiamo deliberatamente scelto di eliminare la possibilità che la vita abbia un significato. Senza un’ipotesi di senso, che si sia genitori o figli, poco cambia: si è tutti naufraghi. Indicare e accompagnare, questo è il compito dell’adulto.
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