Vogliamo più lavoro? «Facciamo tabula rasa dalla riforma Fornero in su. E liberiamoci dai contratti del passato»

Di Matteo Rigamonti
17 Settembre 2013
Intervista a Flavia Pasquini (Adapt): «Non si tratta di escludere i giovani dalle tutele fondamentali, ma di adeguare le regole ai nuovi lavori, che non rientrano nel diritto classico»

Per uscire dal pantano di una legislazione sul lavoro che ormai mostra la corda, la politica ha una strada già tracciata da percorrere. E questa strada passa obbligatoriamente attraverso il superamento delle polemiche sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e delle «evidenti contraddizioni» della riforma Fornero. È la tesi di Flavia Pasquini, vicepresidente della Commissione di certificazione dei contratti del Centro studi Marco Biagi presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, che domani, mercoledì 18 settembre, interverrà come relatrice nell’ambito della giornata su «Le misure sul lavoro del governo Letta», organizzata dal Centro studi Marco Biagi – Adapt, nell’aula Magna dell’ateneo modenese dalle 14:30 alle 17:30.

Professoressa Pasquini, Adapt ha definito il piano per il lavoro varato dal governo Letta «senza visione del futuro e senza una chiara progettualità». Come mai?
Principalmente per le evidenti contraddizioni presenti nei recenti interventi così detti “di riforma”, che tra l’altro mancano del tutto di sistematicità: pensiamo alle ambigue disposizioni in tema di flessibilità in entrata, al nodo irrisolto dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, alle timide (ri)aperture verso il contratto a termine, ma anche alla legittimazione di prestazioni di lavoro senza contratto e senza tutele gratificate da un “congruo compenso”, che tale non è e che anzi non garantisce nemmeno l’erogazione di una “congrua formazione” a chi si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro. Insomma, l’impressione è che, anche con il decreto legge 76/2013, si sia rimasti ancorati a disposizioni nel complesso ormai desuete, che non tengono conto delle nuove esigenze di regolazione del lavoro in un mercato profondamente modificato, anche per il ruolo assunto dalle nuove tecnologie. Questo è confermato dalle poco significative misure di incentivazione economica alla assunzione dei giovani al di sotto dei 29 anni, che risultano prive di qualunque raccordo non solo con le nuove previsioni in materia di apprendistato e tirocini di inserimento, ma anche con il tanto pubblicizzato Piano europeo della Youth Guarantee (Garanzia per i Giovani), ma anche dai provvedimenti in tema di previdenza, istruzione, formazione e università, oltre che di incentivazione alla assunzione di disabili e di altri gruppi svantaggiati.

Quali sono le principali criticità del decreto?
La criticità più evidente – e forse anche la più grave – è il non essere riusciti a introdurre misure sistematiche volte ad arginare il problema della disoccupazione giovanile. O forse sarebbe meglio chiamarla inoccupazione, visto che parliamo di soggetti che non sono mai entrati nel mercato del lavoro. Si è ampiamente parlato, anche negli ultimi mesi, di staffetta generazionale, di Youth Guarantee, di reddito di cittadinanza e salario minimo garantito, di rilancio dell’apprendistato, di ripristino, quantomeno in via sperimentale, nell’ambito del Piano Expo 2015, delle flessibilità negate dalla legge Fornero: eppure quasi nulla di tutto ciò si trova nel testo del decreto legge 76/2013, e nemmeno nella legge di conversione, la numero 99/2013. D’altra parte, si sono trovate risorse per risolvere problemi “di nicchia”, in alcuni casi con vere e proprie sanatorie, come nel caso, per esempio, della così detta “stabilizzazione” degli associati in partecipazione.

Quali sono, invece, le novità positive?
Lo stralcio all’ultimo momento delle misure sul Piano straordinario per Expo 2015 e sul lavoro pubblico hanno fortunatamente scongiurato un ulteriore possibile errore di metodo analogo a quello compiuto dal governo Monti: approvare un incisivo pacchetto di interventi normativi sul lavoro in nome dell’Europa e dei giovani senza condividerlo o concertarlo preventivamente con le parti sociali. Bene, pertanto, che il governo si sia astenuto dal forzare la mano, annunciando per contro l’avvio di una nuova fase di dialogo con le parti sociali, e introducendo, già nel decreto legge n. 76/2013, ma anche nella legge di conversione n. 99/2013, diversi rinvii – si vedrà poi se valorizzati o meno in concreto – alla regolazione pattizia.

Cosa deve fare il governo Letta nell’imminente “Fase 2” per cambiare in meglio le cose?
Idealmente, la “Fase 2” dovrebbe purtroppo fare tabula rasa di molte delle disposizioni in materia di lavoro recentemente adottate, a partire dalla riforma Fornero in poi: si tratta complessivamente, infatti, di misure di dettaglio e se vogliamo marginali, non sistematiche e in alcun modo utili a riordinare il diritto del lavoro, una disciplina che ormai ha perso organicità e che non è stata riformata con una precisa visione del futuro. Anzi, verrebbe da dire che non si è nemmeno tenuto conto di come il lavoro è declinato al presente. Calandoci nella realtà, ad ogni modo, si dovrebbero svincolare le nuove assunzioni dai vincoli del diritto del lavoro classico: non per escludere chi entra oggi nel mercato del lavoro dalle tutele fondamentali frutto di battaglie di civiltà epocali (malattia, gravidanza, misure antidiscriminatorie o a tutela della salute e sicurezza, eccetera), ma per adeguare le regole formali ai nuovi lavori, che sono sempre più difficili da ricondurre negli schemi di luogo, orario e mezzi di esecuzione della prestazione del passato.

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