Lavoro e sussidiarietà per risolvere il dramma delle carceri

Di Raffaele Cattaneo
31 Maggio 2025
Sovraffollamento, suicidi, immobili fatiscenti. Bisogna coinvolgere privati e terzo settore per dare una speranza a chi finisce dietro le sbarre
Carceri minorili
(Foto Ansa)

Questa settimana, nel carcere di Varese, è morto un detenuto di 33 anni, non è chiaro se per suicidio o per cause naturali. Per alcune sere i detenuti – 101 rispetto ai 53 posti regolari – hanno protestato battendo sulle sbarre e gridando “assassini” per oltre un’ora.

Ora provate a immaginare la scena e pensate di trovarvi immersi per un’ora ad ascoltare queste urla, in un carcere che ospita il doppio dei detenuti previsti, in un edificio fatiscente che risale al 1893, dichiarato dismesso nel 2001 e dove l’acqua calda nei bagni è stata portata solo nel 2017.

Questo è solo uno dei tanti episodi che accadono nelle carceri italiane, dove i dati impressionanti dei suicidi negli ultimi tre anni sono rispettivamente 85, 70 e 91, con un tasso rispetto alla popolazione esterna venticinque volte più alto; carceri in cui i casi di autolesionismo, secondo i dati del Rapporto Antigone, sono in crescita del 40 per cento e riguardano oltre un quarto dei detenuti.

Carceri che ospitano 62.749 detenuti a fronte di 46.705 posti disponibili su 51.285 posti regolari, ovvero un tasso di sovraffollamento medio del 134 per cento, con punte di oltre il 240 per cento e, in Lombardia, valori normalmente intorno al 200 per cento.

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Un “sistema infinito”

L’art. 27 della Costituzione recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Possiamo dire che il nostro sistema carcerario oggi tenda alla rieducazione del condannato? Oppure è forse una sorta di “università del crimine”, dove chi entra rischia di trovarsi invischiato in un sistema caratterizzato da “aria ferma” (titolo di un film sulla vita nelle carceri), “ozio senza riposo, ove il facile è reso difficile dall’inutile” (frase spesso scritta sui muri delle nostre carceri)?

Un “sistema infinito” – come è stato definito dall’associazione Spazio Aperto, in un prezioso convegno svoltosi a Milano, ricco di spunti e proposte concrete – nel quale si entra per rischiare di non uscirne più?

È un tema che non possiamo più ignorare, soprattutto oggi, quando nell’opinione pubblica l’idea prevalente è: “Mettiamoli in galera e buttiamo via la chiave”.

Ma può essere questo circolo vizioso la soluzione del problema? Come se ne esce?

Il carcere di Bollate, Milano, 26 maggio 2020 (Ansa)
Il carcere di Bollate, Milano, 26 maggio 2020 (Ansa)

Esperienze positive

Il dato più rilevante, a mio parere, è quello sulla recidiva, ovvero il ritorno a delinquere dopo un periodo di detenzione.

Ma che cosa riduce la recidiva? Condizioni carcerarie dure e punitive, che lascino un segno indelebile nella coscienza del carcerato e scoraggino la ripetizione del crimine, o un carcere che miri a riabilitare il detenuto, responsabilizzandolo e dandogli strumenti per reinserirsi nella convivenza civile?

Secondo un rapporto del Cnel del 2024, «è significativo l’abisso che separa lo spaventoso tasso di recidiva del 70 per cento, stimato sull’attuale popolazione carceraria, da quello di solo il 2 per cento che si ottiene se si limita l’osservazione ai circa 20.000 detenuti che hanno un contratto di lavoro».

Forse, allora, la questione va affrontata in termini diversi. Qual è l’interesse prevalente della collettività? La punizione di chi ha commesso un reato, offendendo l’intera comunità, o il fatto che il colpevole non torni a delinquere?

Se, come io penso, è il secondo, allora la soluzione esiste e passa dal lavoro.

La proposta dell’associazione Spazio Aperto suggerisce di coinvolgere gli imprenditori privati a fianco dello Stato, per costruire nuove carceri che al loro interno abbiano anche vere e proprie attività produttive, sostenute da un pacchetto di benefici fiscali.

Ma anche nelle carceri esistenti, dove ci sono possibilità concrete di lavoro, la recidiva crolla.

Esperienze come quelle del carcere di Bollate o della cooperativa Giotto nel carcere di Padova sono esemplari.

I panettoni della Pasticceria Giotto nel carcere di Padova
I panettoni della Pasticceria Giotto nel carcere di Padova

Privato e sussidiarietà

Concludo con una riflessione più generale: il coinvolgimento, in un’ottica sussidiaria, del terzo settore e del privato anche in questo ambito ha dimostrato di essere efficiente ed efficace.

Altre esperienze lo dimostrano, come le prime comunità di accoglienza o le case-famiglia per detenuti, come alternativa al carcere, soprattutto per persone che hanno bisogno di fare un percorso per recuperare il proprio equilibrio.

Come, ad esempio, ma non esclusivamente, nel caso dei moltissimi detenuti tossicodipendenti, circa un quarto del totale.

Ma per costruire queste comunità di accoglienza per i detenuti, occorre la creatività e l’impegno di vocazioni speciali che si trovano nel terzo settore, nell’impresa sociale, nel no-profit, prima e più che nelle strutture dello Stato.

Dunque, la sussidiarietà come metodo di governo e il coinvolgimento del privato possono essere la strada per affrontare e risolvere anche il tema drammatico delle carceri: sistema infinito di sofferenza e di pena, ma non di rieducazione e recupero della dignità di chi ha sbagliato.

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