
«L’attacco all’ambasciata francese in Libia è una rappresaglia per l’intervento in Mali»
«È il primo attacco di questa levatura nella capitale Tripoli contro un obiettivo occidentale. Penso che si tratti di una specie di rappresaglia nei confronti della Francia per l’intervento in Mali». Così l’inviato di guerra Fausto Biloslavo commenta a tempi.it «l’attentato terrorista» di stamattina nella capitale libica, dove una autobomba è esplosa davanti all’ambasciata francese ferendo due guardie.
C’erano stati attentati simili a Bengasi, nella Cirenaica, ma mai a Tripoli.
È il primo attacco di questa levatura nella capitale Tripoli contro un obiettivo occidentale. La pista della rappresaglia contro la Francia è probabile se si tiene conto che i confini a sud della Libia verso il Maghreb e l’area Subsahariana sono molto porosi e se si considera che parte dei tuareg che avevano conquistato il nord del Mali alleandosi con gli estremisti venivano dalla Libia. Bisogna poi inserire questo attacco nella catena di attentati e di provocazioni avvenuti nell’ultimo anno. Il più importante è sicuramente l’uccisione dell’ambasciatore americano Chris Stevens a Bengasi, dove hanno anche sparato alla macchina del nostro console, motivo per cui abbiamo chiuso il consolato, e alla macchina dell’ambasciatore inglese. L’epicentro sembrava solo Bengasi.
Il ministro degli Esteri libico ha parlato di «attentato terrorista».
Questo attacco dimostra che le cellule jihadiste presenti nel paese si sono attivate e sono riuscite a infiltrarsi nella capitale.
La sicurezza in Libia è una parola ancora sconosciuta?
L’Italia ha cercato di dare una mano al nuovo governo libico, inviando dei blindati, ma la verità è che in Libia dopo l’uccisione di Gheddafi comandano ancora le milizie e le cellule terroristiche. Non dobbiamo però dimenticare che tutte queste milizie e gruppi armati li abbiamo aiutati noi ad abbattere Gheddafi, ad andare al potere e a controllare il territorio. Ora loro sono i più forti nella nuova Libia. Il governo controlla solo alcune parti del territorio.
Perché? Le milizie sono più forti e meglio armate del governo?
Il problema del non controllo del territorio è che la rivolta contro Gheddafi è stata anche una rivolta campanilistica: Misurata è una città a sé, quasi una città-stato, la Cirenaica ha avuto idiosincrasie con la Tripolitania e va per conto suo. Sulle montagne, c’è Zintan che ha catturato Seif al-Islam e se lo tengono. Rappresentano così un contropotere. La Libia è divisa e spaccata tra tutti questi poteri locali e regionali che fanno del loro territorio attraverso uomini armati un piccolo feudo.
L’Italia si è impegnata ad aiutare la Libia a controllare i suoi confini. Come si sta muovendo?
L’Italia già ai tempi di Gheddafi era impegnata per aiutare a controllare le frontiere, non tanto con il filo spinato ma con sistemi di sorveglianza, ottici, a infrarossi. Una volta la Libia aveva il problema dei clandestini, ora si parla invece di traffico di terroristi, di armi, di contrabbando. Quindi è ancora più urgente controllare le frontiere, e non solo quelle meridionali. L’Italia sta cercando di riavviare gli accordi già fatti con Gheddafi, anche perché molto del materiale di sorveglianza è andato distrutto durante la rivolta o bloccato. Il controllo delle frontiere, poi, dovrebbe avvenire attraverso l’Unione Europea: c’è un pugno di osservatori dell’Ue, capitanati da un italiano, che dovrebbero occuparsi in collaborazione coi libici del controllo delle frontiere.
Negli ultimi mesi anche gli attacchi contro i cristiani da parte di fondamentalisti islamici sono aumentati. La strada che porta alla laicità deve ancora essere battuta dalla Libia?
Bisogna tenere conto che esiste una grande fetta della società libica che è laica, ci sono anche i Fratelli Musulmani, che non sono per forza estremisti. Esiste però la minaccia salafita che ha coinvolto tutta la Primavera araba dalla Tunisia all’Egitto alla Siria. La minaccia salafita si è radicata soprattutto nella parte orientale, dove sono più presenti. Prima però se la prendevano solo con i sufi, ora hanno cominciato con i cristiani, che non hanno solo chiese e fedeli sul territorio ma anche una presenza importante di lavoratori stranieri, perlopiù egiziani copti. Poco tempo fa, a Bengasi molti di loro sono stati arrestati e anche torturati perché cristiani. Ci sono stati poi atti vandalici o attentati contro le chiese, preti e vescovi minacciati. La situazione è allarmante, non perché il popolo libico sia un mangia-infedeli ma perché queste minoranze molto rumorose e ben armate fanno un po’ quello che vogliono.
Come mai?
Torniamo al punto di partenza: perché il governo è debole. Ma per un governo forte ci vorrebbe un accordo tra le milizie più forti e i rappresentanti dello Stato. Purtroppo questo accordo non c’è ancora. La Libia sta vivendo una fase di transizione verso la nuova Costituzione e un nuovo sistema di governo. Il percorso è ancora lungo. L’importante è che la Libia vada verso un nuovo sistema costituzionale e che non cada nel baratro dell’estremismo islamico. Che purtroppo è molto presente nel fenomeno della cosiddetta primavera araba.
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