La preghiera del mattino
L’assurdità (o malizia) di mettere in dubbio la distanza della Meloni dal fascismo
Su First online si scrive: «Dopo giorni di polemiche sulla posizione di Fdi, alimentate dal presidente del Senato Ignazio La Russa, secondo cui “l’antifascismo non è nella Costituzione”, la premier getta acqua sul fuoco affidando le sue riflessioni sul 25 aprile ad una lettera inviata al Corriere della Sera. Il 25 aprile sia “un momento di ritrovata concordia nazionale nel quale la celebrazione della nostra ritrovata libertà ci aiuti a comprendere e rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di democrazia”, dice Meloni».
Mi pare che le parole di Giorgia Meloni aiutino a sgombrare le polemiche più rilevanti cresciute in questi giorni: così il ripudio del fascismo, così il considerare il 25 aprile data fondativa della Repubblica e base della Costituzione. Come ha riconosciuto anche una delle voci più autorevoli del mondo liberal americano, la Cnn, la Meloni ha fatto una scelta di campo per la libertà e la democrazia che in parte ha sorpreso un’opinione pubblica internazionale che temeva derive reazionarie. Questo è quello che affermano autorevoli osservatori impegnati a guardare il senso dei processi storici generali, opinioni ben diverse da quelle dei poveri voyeur abituati a guardare la realtà dal buco della serratura e a limitarsi a contare qualche busto (di troppo, naturalmente) di Benito Mussolini presente nella casa di questo o quel personaggio.
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Sugli Stati generali Jacopo Tondelli scrive: «La necessità del 25 aprile, la sua contemporaneità settantotto anni dopo, è certificata da altro. Sono le mentalità complottiste, paranoiche e razziste che animano un pezzo di paese e diverse voci rilevanti – “autorevoli” è aggettivo abusato, che bisogna ricominciare a utilizzare con parsimonia – della maggioranza di governo che meritano di essere tenute sotto osservazione. Senza paura di impossibili svolte autoritarie, ma anche senza paura di litigare pubblicamente – chessò – col presidente del Senato».
Vi è più di un argomento convincente in quel che scrive un osservatore intelligente come Tondelli: alcuni sentimenti d’intolleranza, alcune posizioni che sfiorano se non adottano il razzismo, certi toni prepotenti se non autoritari, inutili provocazioni sui fondamenti della nostra Costituzione invitano a vigilare sulle scelte di principio che sono alla base della nostra Repubblica. Anche se, come spiega Tondelli, non c’è all’ordine del giorno nessun rischio di regime fascista. E quindi la sacrosanta vigilanza su libertà e diritti (vigilanza su libertà e diritti che è cosa ben distinta dalle legittime battaglie culturali tra progressisti e conservatori che sono il sale di una democrazia) richiede non una mobilitazione generale contro un rischio generale per l’Italia, ma una puntuale risposta ad ogni rigurgito antidemocratico.
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Sulla Nuova Bussola quotidiana Eugenio Capozzi scrive: «A maggior ragione quest’anno, dunque, la mistificazione di un’interpretazione della Liberazione del 1945 come passaggio storico che segnerebbe la legittimazione liberaldemocratica solo della sinistra, escludendone in saecula saeculorum la destra, e bocciando qualsiasi cosa essa dica o faccia come irrimediabilmente “sporcata” da una sorta di “fascismo eterno”, verrà ancora sommariamente adoperata quale corpo politicamente contundente, nella speranza di dividere e/o isolare gli avversari, e simmetricamente di cementare lo “zoccolo duro” del consenso di uno schieramento progressista sempre più sfilacciato, contraddittorio al proprio interno e privo di un’identità comune».
Le riflessioni di Capozzi non sono infondate: se la Liberazione è un patrimonio di tutta la nostra nazione, ed è una data come il 4 luglio per gli americani o il 14 luglio per i francesi, non si può però storicamente negare che anche le caratteristiche dell’antifascismo italiano post 1945 furono molto diversificate tra chi considerava la democrazia italiana compiuta e chi verso questa aveva un atteggiamento, come diceva lo stesso Palmiro Togliatti, di “doppiezza”: da una parte impegnato a difendere le basi democratiche della Repubblica, dall’altra impegnato a pensare a una “nuova democrazia” socialista, un sistema che nelle sue prove storiche si è manifestato come assai poco liberale (con tratti “illiberali”, come ebbe a dire pudicamente Enrico Berlinguer). E l’atteggiamento comunista si esprimeva anche nella tendenza a non considerare veramente antifascista chi si proclamava anticomunista. Oggi la fine del movimento comunista mondiale (e della guerra civile europea che lo aveva generato) deve consentire una riflessione su questa storia che spiega (pur se non giustifica) anche il comportamento compromissorio con il fascismo di certi ambienti conservatori, atteggiamento che può essere finalmente e definitivamente liquidato. Con la fine di un’epoca è necessario riportare in uno Stato saldamente antifascista chi ne fu ai margini, in qualche modo come è successo con quel mondo cattolico che fu in certa misura emarginato dallo Stato nella prima fase dell’Unità italiana.
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Su Startmag Francesco Damato scrive: «Di lui da qualche tempo, da quando la Meloni è a Palazzo Chigi, si parla – vedremo se a torto o a ragione – come di un candidato alle elezioni europee dell’anno prossimo nelle liste del partito della generosa premier, alla quale egli riserva attenzione ogni volta che gliene offre l’occasione qualche salotto politico, o simile, specie quello di Lucia Annunziata. Dove ieri, amplificato oggi da Repubblica, forte di averla oggettivamente preceduta a suo tempo come leader di Alleanza nazionale nella scoperta del fascismo come “male assoluto”, ha dichiarato persino con una certa severità di “capire ma non giustificare la ritrosia a pronunciare l’aggettivo” antifascista. Più fiducioso e generoso è stato Luciano Violante, ex presidente della Camera pure lui ma di segno opposto, dicendo al Corriere della Sera che la premier saprà “allontanare gli estremisti” dalla sua area politica e “costruire un futuro privo di nostalgie”. “Ne esistono”, ha detto, ”le condizioni soggettive e oggettive”».
Giorgia Meloni ha spiegato parlando delle Fosse Ardeatine come il massacro nazista sia stato un atto rivolto contro gli italiani da parte di un “invasore”. Giudizio che trasforma automaticamente i repubblichini in collaboratori degli invasori e non soggetto politico autonomo, e che riconosce tutto il valore della Resistenza all’invasore e dunque la base decisiva della nostra Costituzione. Ci si collega così alla svolta di Gianfranco Fini che definì male assoluto la scelta delle leggi razziali fasciste e l’asservimento ai nazisti. Oggi l’ex segretario di Msi e Alleanza nazionale torna sulle scene per dire che Fratelli d’Italia dovrebbe dichiararsi ancora più esplicitamente antifascista. Ma l’essersi dichiarati contro ogni forma di dittatura e di razzismo non è già una chiara dichiarazione di ripudio del fascismo? Fini in realtà si dovrebbe interrogare sui suoi errori, perché dopo aver fatto meritevolmente la svolta di Fiuggi, si mise a tramare contro Silvio Berlusconi cercando di ritagliarsi un ruolo da uomo di centro antiberlusconiano tipo Pier Ferdinando Casini o Mario Monti. E questa sua mossa rese più complicato l’impegno di chi come la Meloni ha cercato e sta cercando di costruire una forza politica tradizionalmente conservatrice e insieme liberaldemocratica, usando anche qualche prudenza lessicale (di troppo?) ma non sostanziale (la presa di distanza dal fascismo dal 1922 in poi per aver conculcato la libertà degli italiani è netta).
L’ex segretario del Fronte della Gioventù anni Settanta, in realtà, non è che uno dei diversi leader primo repubblicani particolarmente leggeri caratterialmente e moralmente, molto concentrati sulla “frase” ma privi di quella consapevolezza della dimensione tragica della storia che non permette atteggiamenti da vispa Teresa svolazzante di qua e di là. Ben diverso è invece Luciano Violante, che prima ha accompagnato attivamente, come scrive nel suo libro Magistrati, il tentativo di trasformare l’Italia grazie a un rapporto magistrati-Costituzione che di fatto metteva ai margini il Parlamento; poi, avendo compreso quanto questo tentativo fosse fallito con conseguenze pericolose per l’Italia, ha lavorato per ricostruire una base di unità nazionale che sorreggesse le necessarie riforme istituzionali che il fallimento del suo stesso progetto politico richiedeva. Ha così mostrato uno di quei tratti culturali e politici che distinguono una persona morale da un quaquaraquà, che s’infila nelle polemiche non per portare parole di verità ma per meschine operazioni di vanità.
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