
La violenza imbellettata del politicamente corretto
Si riparla di “politicamente corretto”. Prendendo però, come accade spesso, la questione per la coda, così è più facile e fa più scena, diventa una cosa da “nouveaux philosophes”, da Bernard H. Levy, da salotto cultural-politico: è di destra o di sinistra? Se la si vede a partire dalla vita delle persone, però, per esempio dai vissuti e dalla sofferenza che portano in terapia, la questione è diversa. Più profonda, e più scomoda. Ho incontrato ciechi e sordi profondamente feriti dal venire definiti con delle perifrasi. Ho incontrato uomini ai quali l’uso sistematico e implacabile del politically correct nel lessico familiare aveva fatto perdere ogni intimità e attrattiva nei confronti delle loro donne. Incontro immigrati che vengono da paesi diversi dai nostri che si sentono profondamente violentati dal non poter esprimere, nei loro rapporti con gli altri, lo stile emotivo e affettivo delle loro culture d’origine (lasciato molto più libero negli Stati Uniti), per contenersi invece in un’algida “correttezza”. La quale, anziché consentire un incontro di due differenze, conferma due solitudini, separate.
Il politically correct, incontrato nella vita delle persone, appare quindi, nella grande maggioranza dei casi, non come una protezione di minoranze minacciate, ma come un intervento autoritario, attraverso la lingua, per svuotare la forza dei diversi gruppi sociali, negando aspetti forti, specifici, della loro identità, di cui vengono quindi privati. Tutta la letteratura, la musica, l’arte nera, ha al proprio centro la forza, la specificità, la ricchezza della “negritudine”, come esperienza, anche di dolore e di lotta, attraverso cui si esprime l’umano. Lo stesso accade per l’espressione artistica femminile, la quale, infatti, non sembra essersi molto giovata della diffusione del politicamente corretto. In Ada Negri, o Anna Maria Ortese, c’è una forza difficilmente rintracciabile in molte autrici che oggi cavalcano le classifiche.
Tutto il campo delle differenze e delle opposizioni, il contatto tra le quali sprigiona energie, è stato disattivato dall’impaurita società secolarizzata, che non è più in grado di metterle a frutto perché non ha più ideali che la trascendano e le consentano quindi di comporre le diversità in un equilibrio superiore. Ne risulta l’universo del pensiero debole. Depresso, ma afflitto da continui scoppi aggressivi, perché la negazione-repressione della diversità è vissuta come violenza da tutti, dal diverso che scompare sotto un eufemismo, ma anche dagli altri che devono accettare l’eufemismo come una verità, sapendo che non lo è. Anche da questa non educazione alla diversità, sostituita dalla semantica dell’eufemismo, nasce la triste aggressione al ragazzo handicappato di Torino. La verità della differenza va detta e accettata nella sua ricchezza, e non coperta da un egualitarismo utile solo a un potere miope, non in grado di fare il suo mestiere. Che è, in gran parte, proprio quello di riconoscere la ricchezza delle differenze, e di valorizzarla.
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