La “riserva escatologica” del mio amico Baget Bozzo
Pubblichiamo l’intervento di Bruno Orsini, tenutosi al convegno “Don Gianni Baget Bozzo, tra mistica e politica” (Genova, 6 maggio 2019) nel decennale della scomparsa del sacerdote (Savona, 8 marzo 1925 – Genova, 8 maggio 2009). Baget Bozzo è stato per un decennio collaboratore del settimanale Tempi.
Nella nota che annuncia e introduce questo nostro incontro si afferma che “a molte persone don Gianni ha aperto la mente e il cuore “.
Io sono stato tra questi quando, non ancora diciassettenne, lo incontrai, nel 1946 nei gruppi giovanili della DC genovese che egli, poco più che ventenne, dirigeva.
Da allora, sino alla sua morte, e cioè per oltre sessant’anni, i nostri rapporti, sia a Genova che a Roma, sono stati frequenti ed intensi, spesso conflittuali in politica, ma sempre coinvolgenti e fraterni sul piano affettivo.
Preparando queste note mi è giunto tra le mani un suo libro, da lui donatomi nel 1997, con una dedica che ho riletto con emozione “a Bruno nella gioia di una amicizia che è durata tutta una vita.” Gianni sapeva dare e ricevere stima, amicizia e affetto. Per questo, quando è scomparso, innumerevoli persone di orientamento e cultura ben diverse dalla sua come Cacciari, Ferrara, Gad Lerner e De Rita, per citarne solo alcuni, hanno scritto di lui parole commosse piene di nostalgia e di rispetto.
Per tornare ai miei incontri giovanili con lui, ricordo bene che egli voleva che la DC avesse una sua identità culturale programmatica precisa e che perciò fosse capace di stabilire un rapporto con le esigenze reali del nostro paese. Per questo bisognava conoscere e capire le più rilevanti dinamiche della società italiana intese nella loro globalità. Per questo Baget mi fece leggere non solo De Gasperi e Sturzo , ma anche Ferrero, Gramsci, Gobetti, Durso, Salvemini, Maritain. Ricordo le discussioni su questi e su altri contributi, in indimenticabili serate, presso la sua abitazione di San Fruttuoso. E ricordo anche i riferimenti all’elaborazione di Civitas Humana (il gruppo sorto all’Università Cattolica di Milano sin dal 1942 ad opera di Lazzati, Dossetti, Fanfani, La Pira ed altri) ed alle elaborazioni espresse a Camaldoli da intellettuali cattolici nel luglio del 1943 alla vigilia della caduta del fascismo.
Oggi può far sorridere che pochi ragazzi alcuni mesi dopo la Liberazione discutessero con Baget di queste cose, ma posso dire che molte delle conoscenze, delle prospettive, delle speranze allora maturate mi sono state accanto per tutta la vita.
Nacque così il nostro appassionato impegno referendario per la Repubblica, la nostra opzione per un’economia mista, per un riformismo teso a trasformare in diritti i bisogni dei poveri e degli esclusi.
Ben presto Baget incontrò Dossetti e si appassionò a ciò che egli era e che rappresentava. Dossetti era un intellettuale convincente e coinvolgente dotato di una logica ferrea e di una grande capacità di aggregazione dovuta anche alla sua ricchezza affettiva. Egli sosteneva, al fondo, che la Dc dovesse avere una identità politica programmatica specifica legata alla sua ispirazione cristiana ma modernamente connessa alla tematica di fondo del nostro Paese.
Già alla fine del ‘46 Baget andò a Roma come Dirigente Nazionale dei Gruppi Giovanili Democristiani ove, tanto per cambiare, si occupò di formazione sulla linea di cui abbiamo detto sin qui, ma il suo prorompente talento, la sua straordinaria cultura e la vivezza dei suoi scritti, così coincidenti con le tesi di fondo di Dossetti, fecero sì che egli fosse ben presto chiamato alla redazione di “Cronache sociali”, la rivista con cui Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira, Glisenti, Grassini ed altri sostenevano in sede politica le tesi e i principi che, parallelamente, riuscivano ad inserire nella Costituzione che si stava redigendo.
Infatti De Gasperi, impegnato nella concretezza dell’attività di governo, dava largo spazio ai cosiddetti “professorini” nell’Assemblea costituente.
Baget fu ben presto inserito in quella straordinaria confraternita che si costituì in via Chiesa Nuova 14, collegata con la comunità dei filippini che gestivano la chiesa contigua e che avevano organizzato un refettorio ove confluivano i giovani che venivano a Roma per lavorare in organismi nazionali di Azione cattolica, per la Fuci (Salvi, Pietrobelli, ecc), per i gruppi giovanili Dc (Baget, Ciccardini ecc.).
Nel palazzo contiguo di proprietà delle signorine Portoghesi cominciarono a confluire e in molti casi ad abitare Dossetti e i suoi amici. Ne nacque una comunità straordinaria scoppiettante di intelligenza e di allegria tenuta insieme organizzativamente da due deputate (Laura Bianchini e Angela Gotelli) cui confluirono, oltre a Fanfani, La Pira, Lazzati ed anche Achille Ardigò, Glisenti , Baget Bozzo ed altri. Il gruppo ottenne il suo maggior successo politico quando Dossetti concordò con Togliatti il testo dell’articolo 7 della Costituzione che inseriva nella carta fondamentale dello Stato l’adesione ai Patti Lateranensi, definendo la Chiesa cattolica e lo Stato “indipendenti e sovrani”. Non c’è dubbio che Togliatti affrontò il dissenso dei partiti laici, dei socialisti su una tale fondamentale questione, anche nell’intento di mantenere ad ogni costo l’intesa con la Dc e soprattutto con la sua componente più giovane e vitale. Tuttavia gli eventi storici successivi misero in crisi tale prospettiva, conducendo alla radicalizzazione dei rapporti Est-Ovest. Stalin, con il Cominform, ripristinò il potere sovietico sui partiti comunisti occidentali, omologò all’Unione Sovietica i paesi militarmente controllati (baltici, balcanici, oltre alla Polonia), costringendoli a rifiutare il Piano Marshall e quindi l’aiuto statunitense all’Europa, consentì a Tito di premere su Trieste, isolò Berlino. Nacque la guerra fredda. De Gasperi, dopo il suo viaggio negli Stati Uniti del 1947, disse chiaramente a tutta la Dc che bisognava stare o di qua o di là e tutti, compresi i dossettiani, riconobbero che era meglio stare “di qua”. In Italia, dopo la defenestrazione di Masaryk a Praga, i comunisti furono esclusi dal Governo. Il primo Parlamento della Repubblica, il 18 aprile 1948, si votò in piena guerra fredda. De Gasperi fu moderato ma non poté esimersi dal dire agli italiani: “Votate bene altrimenti rischiate di non votare più”. La confluenza di voti sulla Dc fu superiore ad ogni attesa e diede al partito di De Gasperi la maggioranza assoluta alla Camera. Però la linea identitaria dei dossettiani fu messa a ben dura prova. Milioni di italiani non avevano scelto Dc sulla linea di Camaldoli, né sulle sue posizioni solidaristiche, internazionalistiche, pacifiste, antifasciste già inserite in Costituzione, ma per motivi ben più elementari: la consideravano garante dell’appartenenza dell’Italia al “Mondo Libero”, chiamato così perché l’altro, quello orientale, tale non era. La Dc non poteva ignorare di aver ricevuto anche un voto talvolta laicissimo, tendenzialmente liberista e fondamentalmente anticomunista. I dossettiani cercarono di conservare per quanto possibile la loro linea sull’identità morale, politica e programmatica del partito e di evitarne la diluizione a destra. E anche per questo chiesero un governo monocolore. De Gasperi rifiutò tale ipotesi, preferì costituire un governo di coalizione con i partiti risorgimentali e affermò in sostanza che, nella situazione data, l’asse del potere avrebbe dovuto passare per il governo, che il partito avrebbe dovuto sostenere più che guidare.
Emerse allora il dualismo partito-governo. Baget considerava del tutto prioritario il partito in quanto espressione di una sintesi politica morale e ideologica da trasferirsi al governo tramite la propria delegazione.
Tuttavia Fanfani, che in quella fase era più degasperiano dei dossettiani, agì molto concretamente: assunse rilevanti responsabilità di governo e favorì per la presidenza della Repubblica il voto ad Einaudi, diventando così il protagonista della politica economica, cui diede una impronta sostanzialmente interventista e keinesiana.
Baget, pur sostenendo come si è detto il primato del partito, si impegnò a favore di De Gasperi. Su “Per l’azione”, il bel settimanale giovanile democristiano, scrisse che era appunto De Gasperi la garanzia che, dopo il voto del 18 aprile, l’Italia avrebbe affiancato ad una politica europeistica ed atlantica anche una politica socialmente avanzata e solidarista.
Il congresso democristiano di Venezia che seguì il voto del 18 aprile fu naturalmente molto importante: i dossettiani ottennero un successo elettorale interno superiore alle attese e chiesero, ancora una volta, che l’unità del partito, sempre invocata da De Gasperi, si costituisse intorno ad una precisa identità.
Per Baget il Congresso fu importante anche perché Dossetti, che pur lo considerava il suo allievo prediletto, gli sconsigliò di dedicarsi prevalentemente al partito e non lo candidò al Consiglio Nazionale affermando che la sensibilità spirituale e la curiosità intellettuale di Gianni lo rendevano più idoneo alla ricerca teologica e a quella culturale e filosofica e cioè a quello che Maritain chiamava “piano nobile”, piuttosto che alla gestione politica della cosa pubblica. Molti dicono, oggi, che Baget fu un profeta, ma, in quella circostanza, mi sembra proprio che il vero profeta sia stato Dossetti.
Baget abbozzò, ma pochi mesi dopo, al congresso di Sorrento, si candidò alla carica di delegato nazionale dei giovani Dc contrapponendosi al candidato di centrodestra. Ricordo bene quel congresso in cui noi ci battemmo per Gianni che era il favorito, ma che fu battuto per un soffio anche perché Franco Evangelisti, legato ad Andreotti, si avvalse astutamente del voto segreto.
Dopo quella vicenda gli interessi di Gianni si volsero a temi di ben più generale interesse. Ricordo in particolare il mio soggiorno estivo a Vigo di Fassa con lui, Ardigò e Andreatta, parallelo a un più ampio convegno che si tenne a Merano, in cui la nostra riflessione spaziò su temi amplissimi addirittura sull’influenza protestante sulla genesi del capitalismo e sulla persistente validità del Sillabo laddove affermava che “Ecclesia cum societate moderna sese componi non potest nec debet”.
Nei mesi successivi, Baget, con l’appoggio di De Gasperi, operò per dar vita a un giornale, “Terza generazione”, che intendeva superare lo schema partitico e antifascista e favorire l’apertura unitaria dei giovani verso un paese non più ancorato soltanto agli schemi resistenziali. Operò anche per riaprire ai gruppi cattolici che erano stati coinvolti in una prospettiva paracomunista. In particolare giunse a stilare la formula di un loro rientro pieno, poi sottoscritta da Cesare Balbo e pubblicata sull’Osservatore Romano. Nel ‘51 Dossetti lasciò la politica e si avviò al sacerdozio. Fanfani concorse a dar vita ad un’area politica generazionale che ebbe i suoi vertici anche in Rumor e Taviani, denominata “Iniziativa democratica”, cui De Gasperi nel 1954 al Congresso di Napoli affidò di fatto il partito.
Baget non accettò ruoli politici significativi nella nuova Dc fanfaniana.
In quel periodo, colsi in Baget spazi per un suo possibile rinnovato impegno nella Dc genovese, che aveva, secondo me, un grande bisogno della sua straordinaria vivezza culturale e politica. Fu così che accettò di candidarsi alle elezioni amministrative del 1956 per il Comune di Genova nella lista Dc. Del resto, Dossetti a Bologna aveva fatto lo stesso. Condussi la campagna elettorale (personalmente ero in corsa per il secondo mandato a Tursi) congiuntamente per me e per lui. Ma subito dopo esplosero problemi imprevisti che andavano al di là di quelli connessi ad una civica amministrazione. La coalizione centrista, che aveva l’obbiettivo di rieleggere sindaco Vittorio Pertusio, ottenne solo 38 voti su 80, 20 ne ottennero i comunisti, 18 i socialisti, 4 i missini. Le alternative possibili per la Dc erano due: accettare i 4 voti missini, che ce li offrirono immediatamente, o gestire la possibile astensione socialista. Baget Bozzo ed io considerammo che impegnare la Dc in una maggioranza senza confini a destra e cioè con i monarco-missini fosse un errore grave incompatibile con l’identità e la storia del partito. Sapevamo bene che era forte, nel partito socialista, la spinta a liberarsi dal giogo comunista ed eravamo convinti che, a Genova, isolare i comunisti sarebbe stato un grande successo. Ma prevalse la tesi opposta.
Baget Bozzo con me ed altri 4 consiglieri rifiutò l’operazione di centrodestra pur votandola per disciplina di partito. La vicenda ebbe rilevanti conseguenze per la Dc genovese: Baget si dimise dal consiglio comunale e si trasferì a Roma; io ed altri abbandonammo per lustri la politica attiva.
Ma l’aspetto politico più rilevante della vicenda fu il sostanziale silenzio del Pci a fronte dell’ingresso dei postfascisti nella maggioranza che governava la città. Nessuno sdegno, nessuna manifestazione. Per contro, qualche tempo dopo, quando i missini indissero un loro congresso a Genova, lo sdegno proruppe, la popolazione fu mobilitata, Pertini pianse, un ufficiale di polizia fu gettato nella vasca di Piazza De Ferrari. Il 30 giugno 1960 fu dipinto come un nuovo 25 aprile. Come si vede lo sdegno del Pci fu sussultorio anche perché aveva una componente strumentale: assente quando l’incidenza missina serviva ad evitare il proprio isolamento, clamoroso invece quando utile a rovesciare un governo nazionale di centro destra.
Baget Bozzo rientrò clamorosamente in politica qualche tempo dopo appoggiando il centro destra di Tambroni.
Fu il ricordo delle vicende genovesi a influenzare questa sua scelta? Forse, ma solo parzialmente. Certo contribuì a fargli giudicare strumentale l’uso dell’antifascismo e a prendere le distanze dal tentativo di farne la base di future intese politiche di governo. Ma, soprattutto, stava crescendo in lui la spinta ad opporsi all’ondata dilagante della contestazione di ogni forma di autorità.
Anche in ambito ecclesiale egli ritenne doveroso difendere il primato di Pietro dalla crescente domanda di collegialità episcopale.
Riporto una sua frase di allora: “Dobbiamo ricordare che è stato Dio a creare l’uomo anche se molti sembrano credere che sia stato l’uomo a creare Dio”.
Fu in quel tempo che egli tese a difendere il valore della tradizione liturgica e a segnalare i pericoli intrinseci alla marea montante di una malintesa collegialità ecclesiale. Certo, nella seconda metà degli anni 60, si verificò in lui una rilevante evoluzione delle sue precedenti sensibilità connessa anche ad una vera e propria crisi mistica accompagnata da quelle che egli chiamava “voci” e cioè a percezioni sensoriali da lui vissute come divine. Comunque cessò anche formalmente di essere democristiano. Divenne sempre più critico dell’unità politica dei cattolici sostenendo che, in assenza di una propria e specifica autonomia e identità, la Dc rischiava di diventare soltanto il partito dei vescovi e di ricevere dalle parrocchie e non da se stessa gran parte del consenso elettorale coinvolgendo così la Chiesa in pratiche gestionali talvolta non condivisibili.
Su questa linea Baget giunse, dopo la liquidazione di Tambroni, ad esaminare persino l’ipotesi di formazioni politiche di ispirazione cristiana diverse dalla Dc. Ma si rese presto conto che l’unità politica dei cattolici era un punto fermo nella visione della Cei.
Accettò comunque l’invito del Cardinale Siri di collaborare alle iniziative culturali della diocesi denominate “Per l’incontro” ed operò al Quadrivium con grande efficacia organizzando confronti pluralistici di straordinario livello.
Seguì il Consiglio Vaticano II in modo ben diverso da quello di Dossetti che, ormai da tempo sacerdote, operava con il cardinale Lercaro sulla linea degli innovatori. Baget condivideva invece le posizioni di quanti temevano che l’abbandono del latino, le innovazioni liturgiche, il crescente ruolo degli episcopati nazionali potessero contribuire alla disgregazione della cristianità. La rivista “Renovatio”, che alcuni chiamavano “Conservatio”, di cui Siri gli aveva affidato la direzione, divenne anche punto di riferimento teologicamente e culturalmente qualificato di quanti pensavano ad una Chiesa gerarchica governata dallo Spirito Santo tramite il Papa piuttosto che ad una Chiesa retta dalle variabili comunità nazionali e locali.
In quel periodo incontravo spesso Baget: lui non era più democristiano, ma io lo ero ancora anche se non facevo politica di partito e mi battevo piuttosto per dare diritti civili ai centomila italiani ricoverati nei manicomi.
E proprio all’Ospedale Psichiatrico di Quarto, Baget mi veniva a trovare nei pomeriggi in cui ero di guardia: lunghi incontri, lunghe passeggiate. Posso ben dire che la sua mente ed il suo cuore in quegli anni esprimevano tensioni mistiche e spirituali. Come poi disse Cacciari, ciò che scrisse Gianni in quegli anni sulla Trinità e sulla conoscenza di Dio furono importanti per lui e per molti.
Ricordo bene il volto di Gianni quando mi confidò che avrebbe ricevuto presto la consacrazione sacerdotale: era un uomo felice.
Alla sua ordinazione presenziarono innovatori come Dossetti e La Pira, ma anche comunisti come Adamoli e Giorgio Doria e tradizionalisti come Gedda ed Accame. Tutti erano consapevoli dello spessore, della passione cristiana e civile di Baget, e della qualità dei suoi vissuti nel tumultuoso percorso della sua vita, che erano sfociati in don Gianni prete.
A 42 anni Gianni aveva raggiunto quel sacerdozio cui già decenni prima aveva aspirato.
Tuttavia gli eventi che lo hanno reso tanto noto e discusso si verificarono dopo quella ordinazione. Ad essi accennerò assai più sinteticamente di quanto abbia fatto narrando sin qui le vicende.
Voglio soltanto ricordare che anche per nostre sollecitazioni (parlo dei suoi amici genovesi, Gagliardi in primis) all’inizio degli anni 70 si convinse a scrivere la storia della Dc che fu poi pubblicata da Vallecchi nel 1974, in due volumi: Il primo dedicato alla Dc di De Gasperi e di Dossetti, il secondo alla Dc di Fanfani e di Moro. L’opera ebbe uno straordinario successo politico ed editoriale per la sua qualità intrinseca e anche per la finezza con cui le dinamiche storiche, civili, politiche connesse ai fatti trattati venivano esposte.
Baget mi disse che quel lavoro esprimeva il suo ultimo saluto ad una cara estinta: la Dc.
Scalfari, letta la sua opera, chiese a Baget di diventare editorialista politico di Repubblica. Gianni accettò e diventò ben presto uno dei più apprezzati commentatori politici italiani per l’originalità, l’acutezza e l’anticonformismo dei suoi scritti. Naturalmente il fatto che un prete esprimesse quasi ogni giorno giudizi politici anche taglienti sulle vicende italiane contestando anche non raramente i consolidati orientamenti della Cei sull’unità politica dei cattolici, era incompatibile con l’esercizio di ruoli istituzionali nella Chiesa genovese, che infatti furono revocati.
Personalmente ricordo che nel maggio 1976, quando mi candidai al Parlamento, Gianni mi telefonò dicendomi affettuosamente che forse era meglio che non facessi il deputato. Naturalmente proseguii nella strada che avevo scelto e andai alla Camera. Lui non era più democristiano ma io sì. Ricordo però che Baget mi fu di aiuto quando, mesi dopo, divenni relatore di minoranza sulla legge 194 e contrastai con tutte le mie forze l’aborto discrezionale. Nella mia relazione utilizzai gli scritti di Baget sulla “Società radicale”. Egli infatti aveva sostenuto la profonda erroneità della posizione secondo cui sessualità, famiglia, riproduzione erano di esclusiva competenza del singolo. Infatti Baget aveva ricordato che la volontà dei singoli non ha la stessa efficacia operativa perché dipendente dalla variabile forza di ciascuno di loro. Baget ne aveva quindi dedotto che se la società non tutelasse i deboli, i vecchi, i disabili, i bambini anche se non ancora nati, essi sarebbero vittime della volontà dei forti.
Su questi temi di fondo eravamo ancora dalla stessa parte. Tuttavia Gianni era ormai diventato un personaggio del tutto estraneo alla Democrazia cristiana e non perdeva occasione per dichiarare dannosa e comunque estinta l’unità politica dei cattolici. E assunse via via posizioni di cui altri meglio di me parleranno. Infatti nell’economia di questo incontro mi era stato affidato il compito di occuparmi del rapporto Baget-Dc. Spero di averlo adeguatamente assolto. Vorrei aggiungere peraltro che ciò che diceva e scriveva Baget nella sua fase postdemocristiana acquisì via via una risonanza mediatica rilevante che egli imparò presto a gestire non solo con l’abituale autonomia, ma anche con una spregiudicatezza verbale che sottolineava, per contrasto, l’inadeguatezza un po’ ipocrita e un po’ furbastra del cosiddetto politichese.
Anche per questo fu indotto nel 1978 a rinunciare all’insegnamento nella Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e, dopo avere espresso interesse per l’atteggiamento di Berlinguer verso i cattolici, fu dimissionato da Renovatio.
Sempre nel 1978, dopo il rapimento di Moro, si convinse della necessità e del dovere che venisse gestito ai giusti livelli un qualche rapporto con le Brigate Rosse. Ciò non solo per salvare la vita di Moro, ma anche per comprendere la struttura e condizionare l’evoluzione del cosiddetto Partito Armato. Constatò che Craxi si muoveva in tal senso. Gli scrisse e lo incontrò a Roma. La conoscenza divenne rapidamente stima ed anche amicizia. Ma di tutto questo Stefania Craxi vi dirà assai meglio di me. Io posso però dirvi soltanto che Baget vedeva in Craxi l’uomo che sganciava davvero il socialismo dalla subalternità al mondo comunista.
La fine, secondo Baget già avvenuta, dell’unità politica dei cattolici consentiva a lui e a quanti ritenessero giusta la linea craxiana, di aderirvi anche formalmente e pubblicamente. Ciò nel 1980 gli procurò una ”monitio” ecclesiale con l’invito a sospendere ogni attività pubblica pena l’interdizione dal predicare. Tale ammonimento fu da lui disatteso in nome della libertà di coscienza. La sanzione più grave gli giunse però, nel 1985, a seguito della sua candidatura socialista al Parlamento Europeo, con la proibizione di celebrare la Messa e di portare l’abito ecclesiastico.
Posso testimoniare che tutto ciò gli causò una sofferenza profonda talvolta accompagnata da manifestazioni intense di conversione somatica dell’ansia. Tutto ciò però non incise sulla attività di intellettuale e di pubblicista. Anzi rese più acute alcune sue intuizioni, che oso ritenere profetiche. Penso a ciò che scrisse sulla necessità di un Papa non italiano, meglio se sudamericano, sulla radicalità della questione islamica, sulla decolonizzazione, per non parlare dell’inesausta passione con cui affrontò temi teologici e mistici dedicando uno dei suoi scritti a “Giuseppe Siri, testimone e maestro”.
Nel 1994 , dopo la fine del suo mandato di parlamentare europeo, Baget fu pienamente riammesso nella Chiesa genovese. Continuò sempre ad essere convinto che la storia, anche per vie misteriose, è segnata dallo sviluppo della natura umana redenta in Cristo e che la Chiesa deve essere in primo luogo espressione del cammino dell’umanità verso l’eterno.
Tangentopoli non attenuò la sua amicizia per Craxi, che incontrò anche ad Hamamet.
Considerò Berlusconi uno straordinario federatore di tutte le forze capaci di fronteggiare la sete di egemonia della sinistra postcomunista.
Credo che Gianmoena, che gli fu accanto negli ultimi anni della sua vita, vi dirà dell’impegno di Baget sul piano culturale e ideale per concorrere a definire e a migliorare la dimensione teorica e pratica del berlusconismo.
Personalmente penso che sia Craxi che Berlusconi fossero vissuti da Baget come una provvidenziale risposta al rischio che la crisi italiana conoscesse sbocchi liberticidi e disgregativi.
Credo anch’io con Cacciari che per don Gianni non sia mai venuta meno la “riserva escatologica”, quella per cui viveva tutte le vicende terrene come finalizzate alla “cosa ultima”.
E consentitemi di dirvi che spero e credo che Gianni, dopo avere concluso, in pace con la sua Chiesa, questo suo straordinario percorso terreno, questa “cosa ultima” abbia vittoriosamente raggiunto.
Foto Ansa
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