
La riduzione terapeutica del cristianesimo

Il 9 ottobre scorso presso il teatro Tiffany di Forlì si è tenuta una serata sul tema “Covid 19: la Messa è finita?” per riflettere sulla flessione della partecipazione al culto dopo l’imposizione delle restrizioni legate all’epidemia di Covid 19. Relatore unico il nostro Rodolfo Casadei. Proponiamo la prima parte del suo intervento.
«Questa familiarità con il Signore, dei cristiani, è sempre comunitaria. Sì, è intima, è personale ma in comunità. Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il Pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa. Può diventare una familiarità – diciamo – gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio. La familiarità degli apostoli con il Signore sempre era comunitaria, sempre era a tavola, segno della comunità. Sempre era con il Sacramento, con il Pane. Dico questo perché qualcuno mi ha fatto riflettere sul pericolo di questo momento che stiamo vivendo, questa pandemia che ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione, (…): oggi ce l’avete, l’Eucaristia, ma la gente che è collegata con noi, soltanto la comunione spirituale. E questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre. (…) È vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci. E questa è la familiarità degli apostoli: non gnostica, non viralizzata, non egoistica per ognuno di loro, ma una familiarità concreta, nel popolo. La familiarità con il Signore nella vita quotidiana, la familiarità con il Signore nei sacramenti, in mezzo al popolo di Dio».
Questi brani sono tratti dall’omelia tenuta da papa Francesco durante la Messa da lui celebrata a Santa Marta il 17 aprile scorso. Il messaggio è chiaro: fare la comunione spirituale non sostituisce la comunione reale. Non si può dire che non ci sia stata una catechesi su questo punto; ed è arrivata dal vertice della Chiesa, dal Papa. Perciò mi sembra una critica un po’ ingenerosa e molto approssimativa quella di chi ha detto: avete sospeso le Messe con troppa facilità, come se fosse un servizio non essenziale, avete lasciato passare l’idea che si può essere cristiani anche senza andare in chiesa, e adesso pagate il prezzo della vostra superficialità; avete dimostrato voi per primi di non credere che l’Eucarestia sia indispensabile, e i fedeli hanno tratto le loro conclusioni. Io non vedo questo nesso di causa ed effetto. Credo che la vera ragione delle defezioni è che tanta gente veniva in chiesa per ritualismo. Quando non sono più potuti venire, hanno scoperto che stavano bene lo stesso, e quindi hanno smesso divenire anche quando c’è stato il via libera. M’è venuta in mente l’immagine della folata di vento in autunno che fa cadere le foglie morte dagli alberi: le foglie sono già secche, cadranno in ogni caso; la folata di vento accelera il processo. I divieti del Covid sono stati la folata di vento.
Ma non voglio fare il difensore ad oltranza delle gerarchie ecclesiastiche: ce ne sono già tanti e non ce n’è bisogno di un altro. Anch’io condivido alcune critiche che sono state fatte. Credo che si sia data l’impressione – e sottolineo “impressione” – che a prendere le decisioni non era la Chiesa (come in Italia stabiliscono gli accordi fra Stato e Chiesa e come a livello universale ha ribadito il Concilio Vaticano II nella costituzione Sacrosanctum Concilium al n. 22), ma lo Stato, al quale i vescovi si adeguavano come fossero funzionari statali; credo che quando le forze dell’ordine hanno interrotto Messe celebrate da sacerdoti che non tenevano conto dei decreti che le avevano sospese, i vescovi avrebbero dovuto riprendere con uguale severità i sacerdoti disobbedienti e gli agenti di pubblica sicurezza che avevano profanato la più sacra e la più santa delle azioni liturgiche, e invece così non è stato. Credo che non sia stato abbastanza sottolineato che per amore del prossimo e per rispetto verso il divino dono della vita la Chiesa operava una dolorosa rinuncia, privava i battezzati di qualcosa di estremamente prezioso: non si è trasmessa con sufficiente forza l’idea che la rinuncia all’Eucarestia che i credenti accettavano è una fatica ben più grossa che rinunciare alla corsa podistica solitaria, alla serata con gli amici, alla partita allo stadio.
La critica più seria che mi sento di fare, e che deve essere necessariamente un’autocritica, è che non abbiamo detto abbastanza chiaramente che non andare a Messa e non ritrovarsi più come comunità era una PRIVAZIONE, e che il Covid – anzi: le conseguenze del Covid – sono un MALE. Le conseguenze del Covid sono l’isolamento, l’infermità, la morte – in 36 mila casi in Italia la morte. E questi sono dei mali. La critica che mi sta più a cuore di fare, è che spesso abbiamo ignorato la dimensione della PRIVAZIONE e del MALE rispetto al Covid, e abbiamo detto che in sostanza il Covid era un BENE, era un bene perché se Dio lo permetteva era per darci l’occasione di verificare che la fede cristiana funziona sempre: la fede ci fa stare bene quando tutte le cose vanno bene, e ci fa stare bene anche quando le condizioni esteriori sono ostili, negative. Quindi non c’è nessuna privazione se non possiamo più andare a Messa o ritrovarci in presenza con gli amici, con la comunità cristiana: non sono privazioni, sono la possibilità, l’occasione, di sperimentare il bene in un modo diverso. E questo sarebbe verificato dal fatto che stiamo bene, proviamo una sensazione di benessere anche confinati, isolati o malati. A me questo modo di intendere il cristianesimo sembra un po’ troppo buddhista; papa Francesco direbbe un po’ troppo gnostico. Io direi anche un po’ troppo psicoterapeutico. Una riduzione terapeutica del cristianesimo.
Da una male può venire un bene, anche il male può concorrere al bene, ma a patto che prima di tutto lo si chiami col suo nome. Il male è male e l’uomo prima di tutto lo sperimenta come tale. Dio stesso lo sperimenta come tale. Altrimenti non si capisce perché Gesù abbia pregato nell’orto degli ulivi «Padre, se è possibile, allontana da me questo calice». Non si capisce perché quando va alla tomba del suo amico Lazzaro si mette a piangere. A piangere! E stava per resuscitarlo! Non si capirebbe perché sulla Croce, mentre sta facendo la volontà del Padre, si sia messo a pregare con le parole del salmo 21: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». I Salmi: almeno la metà dei salmi sono preghiere di uomini angosciati, di uomini che dicono «Dio, dove sei?», «Perché permetti questo?». Eppure i Salmi li ha scritti il popolo eletto, eppure Cristo era il Figlio di Dio, era “una cosa sola con il Padre” anche quando diceva quelle cose, anche quando piangeva e chiedeva di non essere messo alla prova!
Mi ha sempre colpito il fatto che Gesù non resuscita con un corpo integro, ma con un corpo piagato. Nel corpo di Gesù risorto ci sono ancora le ferite della sua uccisione. Il male è talmente male che ha lasciato il segno; il male è superato, è vinto nella resurrezione, ma non è cancellato: è irreversibile, è talmente irreversibile che lascia il segno.
Otto anni fa mi è capitato di intervistare Claire Ly. Claire Ly è una professoressa cambogiana buddhista che è sopravvissuta ai campi di sterminio dei khmer rossi. Le hanno ucciso il padre, il marito e due figli. Lei si è salvata, si è trasferita in Europa e nel 1983 si è convertita al cristianesimo. Mi ha spiegato così la sua conversione:
«Gesù di Nazareth mi ha sedotto subito come maestro, e questo non era in contraddizione col buddhismo, che permette una pluralità di maestri: mi sono messa ad ascoltarlo. Quel che mi colpiva di lui, era la vicinanza, il fatto che era un maestro alla mia portata. Buddha è il maestro che mostra la strada verso il Nirvana, ma soltanto lui è arrivato alla saggezza suprema. Solo lui è stato capace di vivere senza mai piangere, senza mai provare rabbia. Questo lo rende lontano, un modello inarrivabile. Invece Gesù è uno che piange, che si arrabbia: l’ho sentito vicino e simile a me. (…) La fede cristiana ha questo in più di qualunque altra fede religiosa: che è Dio che si abbassa fino a noi. Questo è un movimento unico fra tutte le religioni. In tutte le altre esperienze religiose si tratta sempre di salire, anche il buddhismo richiede un’ascesi continua. Invece nel cristianesimo è Dio che si colloca alla nostra portata».
Qui ci sono due cose importanti. La prima: Gesù è uno che piange, che si arrabbia; è anche uno che gioisce, che prova contentezza, che si compiace di certe cose e di certe persone. Dov’è che sbaglia il cristianesimo terapeutico? Sbaglia nel pensare che il cristianesimo debba garantire il benessere psicologico in qualunque situazione ci troviamo, che sia una terapia che permette di trasformare il dolore in piacere. Non è così: il cristianesimo è la fede della moltiplicazione dei sentimenti e delle emozioni umane. Il cristiano che segue davvero Cristo soffre più intensamente degli altri uomini e gioisce più intensamente degli altri uomini; vive più intensamente tutto ciò che è umano, che sia piacevole o che sia spiacevole. Perché lo vive secondo la profondità delle cose, cioè secondo la verità delle cose. E questo Gesù lo ha detto: «non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del Vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna». Dunque centuplo di esperienze piacevoli, la fraternità cristiana, ma anche centuplo di esperienza spiacevoli, le persecuzioni.
La seconda cosa importante: nel cristianesimo Dio si abbassa fino a noi, dice Claire Ly. Perché Dio si fa uomo, si fa mortale? Perché abbiamo bisogno della comunità, dei preti, del Papa per salvarci? Perché per ricevere la Grazia di Dio abbiamo bisogno di realtà materiali come il pane e il vino? Ma perché quello è il nostro livello: siamo una sintesi di spirito e materia, quindi non ci si può fermare al livello dello spirito, bisogna venirci a cercare al livello della nostra realtà materiale. Il culto per i cattolici implica una prossimità fisica. La Grazia sacramentale si comunica attraverso rituali che implicano il contatto, o per lo meno la prossimità. Tutti e sette i sacramenti ci comunicano la Grazia o attraverso il contatto o attraverso la prossimità. Non ci si può confessare al telefono, o via Internet: bisogna che tutti e due siano lì. Come diceva recentemente un filosofo cattolico francese, Fabrice Hadjadj, nel cristianesimo c’è questa idea che la mediazione della creatura ci avvicina a Dio più dell’immediatezza totale del rapporto con Lui. Il carattere sensibile, carnale del sacramento ci avvicina di più allo spirituale che se pretendessimo di andare allo spirituale direttamente. Questo è il paradosso cristiano.
Foto Ansa
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