
La prossima dissoluzione della Spagna è l’ultimo frutto della semina di Zapatero
Domenica 25 novembre le elezioni anticipate della Catalogna si terranno in un clima avvelenato. Alla crisi che investe anche la regione più industrializzata della Spagna, alla quasi bancarotta che l’ha costretta a chiedere 5 miliardi di euro di aiuti a Madrid e alle tensioni causate dal progetto del governatore uscente Artur Màs di indire un referendum per l’indipendenza, si è aggiunta una violenta polemica sui fondi detenuti in Svizzera dallo stesso Màs e dalla famiglia Pujol (quella dell’ex governatore Jordi, per 23 anni a capo della regione e del partito CiU) che per il quotidiano madrileno El Mundo sarebbero il risultato di tangenti pagate da imprese catalane.
Oltre alle immaginabili querele, l’inchiesta ha spinto i catalanisti ad accusare il governo di «gioco sporco» attraverso «le cloache dello Stato», e il primo ministro Rajoy a rispondere che «se qualcuno ha un problema, non deve cercare di scaricarlo su altri».
In mezzo, il Partito socialista che per otto anni ha governato la Spagna si presenta nelle vesti di paciere, proponendo la soluzione del federalismo. Ma il Psoe è l’apprendista stregone che ha portato la Spagna sull’orlo della dissoluzione: sono stati i socialisti catalani a creare a suo tempo una maggioranza di governo con la sinistra indipendentista, a votare uno statuto che definiva la Catalogna “nazione”, a provocare la radicalizzazione indipendentista di CiU.
Zapatero ha lasciato fare: a denunciare lo statuto alla Corte costituzionale, che poi lo bocciò, fu il Partito popolare. Oggi i socialisti raccolgono quello che hanno seminato: mentre quelli di Madrid invocano il federalismo, quelli di Barcellona si dichiarano favorevoli al referendum di autodeterminazione. E la Spagna scricchiola.
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