Il Deserto dei Tartari
La lezione del referendum costituzionale
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Tre sono le cose che mi hanno sorpreso del referendum costituzionale e dei suoi esiti: la larga vittoria del No, la reazione di Matteo Renzi e quelle dei suoi sostenitori. A esseri sinceri il fatto che mi ha colpito di più è stata la reazione querula e disperata di non pochi militanti pro-riforma, certi loro atteggiamenti da ultimi giapponesi come l’insistenza a protrarre il dibattito e a esporre ragioni anche molto giorni dopo il conteggio dei voti, e certe tirate d’orecchie ai votanti del No a mo’ di mamme che cercano di far sentire in colpa i figli discoli che han voluto fare di testa loro. Ma cominciamo con la clamorosa mancata vittoria del Sì.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Negli ultimi giorni della campagna referendaria mi ero convinto che avrebbe prevalso l’opzione a favore della riforma, avvertivo intorno a me una rapida rimonta del Sì, nonostante i sondaggi ufficiali l’avessero dato per molte settimane indietro di 6-7 punti rispetto al voto contrario. Mi spiegavo il fenomeno con la saturazione degli spazi della propaganda da parte dei sostenitori della riforma e con la mancanza di leadership del fronte del No: mentre il Sì aveva nel premier in carica il punto di sintesi della sua proposta, il No sembrava quasi l’accozzaglia di renziana evocazione, una policroma accolita di volonterosi che incarnavano certamente la ricchezza della pluriformità tipica dell’Italia, ma anche un’antologia delle maschere italiane. Zagrebelski ricordava Balanzone, tutti i Cinque stelle Brighella, Berlusconi ovviamente Pantalone, Matteo Salvini altrettanto ovviamente Meneghino. Per smarcarmi da chi mi citava i nomi dell’uno o dell’altro “impresentabile” del fronte del No e la sua stonata eterogeneità, io replicavo che in faccia all’”Italia del sì” non ci stava un altro monolite, ma “le Italie del no”, memento del fatto che il nostro paese ha dato in passato e dà pure oggi il meglio di sé quando può esprimersi alla prima e alla terza persona plurale, e non ossessivamente alla prima persona singolare del capo del governo. Dall’altra parte, col presidente del Consiglio propagandista massimo del Sì (grande scorrettezza: le riforme costituzionali sono iniziative del parlamento, quando interveniva all’Assemblea costituente Alcide De Gasperi lasciava il banco del governo e parlava dagli scranni dei deputati) erano schierate le batterie di artiglieria pesante che sappiamo. In particolare a Milano oltre ai vertici locali di Confindustria e del Pd, al sindaco in carica Giuseppe Sala e ai giornali milanesi pro-centrosinistra (apertamente il confindustriale Sole 24 Ore e il renzianissimo Foglio, in maniera ovattata il Corriere della Sera) erano schierati per il Sì pezzi da novanta storicamente di centrodestra come gli ex sindaci Gabriele Albertini e Letizia Moratti, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e addirittura Vittorio Feltri direttore di Libero, che solo negli ultimi giorni, forse a conoscenza di sondaggi riservati, ha virato verso l’astensione. Con tutto questo armamentario a favore, a Milano il Sì l’ha spuntata per 15 mila voti su quasi 700 mila voti validi espressi. Se dal risultato del capoluogo lombardo si togliesse il voto della circoscrizione del centro storico, quella dove abitano i siuri de Milan, il No avrebbe vinto di qualche centinaio di voti.
Dunque, avvertendo il clima che regnava a Milano, pensavo che il Sì l’avrebbe spuntata. L’ha spuntata di poco nella metropoli e in altri 4 capoluoghi di provincia lombardi, ma ha perso in tutte e 12 le province della regione, compresa quella di Milano. L’amore per la specificità, la storia, la diversità, il territorio, il luogo ha vinto contro un’ipotesi percepita come omologazione, monolitismo, nuovismo fine a se stesso, generalizzazione del non luogo e del senza storia. Non avevo il polso dell’Italia intera, dove il No ha registrato quasi 4 punti percentuali in più rispetto alla Lombardia (59,1 contro 55,5).
I numerosi renziani del fronte pro-riforma si sono consolati teorizzando che il quasi 41 per cento dei Sì rappresenta un formidabile viatico per il presidente del Consiglio dimissionario, e prospetta un futuro elettorale roseo per lui. Su questa interpretazione del voto ha ironizzato l’ex vice direttore de Il Foglio Lodovico Festa: «Prendere il 40 per cento di voti con l’85 per cento dei soldi a disposizione, il 90 per cento della stampa nazionale, il 95 per cento delle presenze televisive e il 100 per cento degli annunci della legge finanziaria per “orientare” segmenti elettorali significa essere addirittura più schiappe di Hillary Clinton».
Per quanto riguarda la reazione di Matteo Renzi alla sconfitta, io non dubitavo che si sarebbe dimesso come aveva promesso. Anche se l’ex presidente del Consiglio è famoso per le solenni promesse non mantenute, bisogna notare che stavolta l’impegno era stato preso direttamente col popolo italiano, e non con altri uomini politici (come nel caso dello “stai sereno” rivolto a Enrico Letta e degli accordi non rispettati con Berlusconi e D’Alema). Non immaginavo però che la sua esibizione di narcisismo senza precedenti nella storia politica italiana del Dopoguerra avrebbe travolto tutti gli argini. Silvio Berlusconi, maestro di enfatica personalizzazione della comunicazione politica, nel paragone ci fa la figura di un leader sobrio e modesto. Quegli “io sono diverso dagli altri” e quegli “ho perso io, non voi” hanno mostrato a tutti un leader talmente innamorato di se stesso da voler celebrare teatralmente anche la propria sconfitta. Ma lo zenit della vanagloria coincide col video “1.000 giorni di governo”, dove l’iterazione ossessiva dell’immagine del capo del governo accompagna numeri amministrativi e titoli di legge che ne consacrano il trionfo sconfinato. Personalmente ho votato No al referendum costituzionale per le molte ragioni di merito che ho spiegato anche in questo spazio blog, ma il video prodotto da Matteo Renzi dimostra che il mio voto è stato giusto e opportuno anche in termini politici generali. Un uomo politico come Matteo Renzi che demiurgicamente attribuisce a sé tutti i meriti del governo da lui presieduto, che non distingue fra provvedimenti lodevoli, discutibili, pessimi e disastrosi bocciati dagli organi di controllo (banche popolari e riforma della pubblica amministrazione per dirne solo due) ma tutto somma per apparire il superman che stava cambiando l’Italia, fermato solo dalla kryptonite del No, che vede se stesso come un ibrido fra Barack Obama e Kim Jong-un, meritava di essere fermato e collocato ai margini. L’Italia non ha bisogno di uomini della Provvidenza, già li ha avuti e non hanno dato buona prova di sé. L’Italia ha bisogno di riscoprirsi popolo e di educarsi come popolo, non ha bisogno di un altro duce. E ai cattolici tentati dall’apparente efficientismo dell’uomo di Rignano sull’Arno dico: teniamoci alla larga dagli idoli.
Concludo con una nota personale, cercando di dire in due parole lo spirito con cui ho vissuto la campagna referendaria. Sono lieto che abbia prevalso quella che a me e ad alcuni amici appariva la scelta migliore in vista del bene comune. Se avesse vinto l’opzione avversa, avrei provato tristezza come capita a tutti coloro che patiscono una sconfitta nella competizione alla quale hanno scelto di partecipare. Ma non delusione. Perché più ancora del risultato è importante esercitare la propria umanità col reale, entrare in una relazione impegnata con le circostanze che la vita e la storia ci impongono. È importante perché è l’unico modo per tenere viva (o risvegliare se si è assopita) la propria natura di esseri che desiderano un bene infinito. Come ha scritto Luigi Giussani nella sua opera maggiore Il senso religioso, «La condizione per potere sorprendere in noi l’esistenza e la natura di un fattore portante, decisivo come il senso religioso è l’impegno con la vita intera, nella quale tutto va compreso: amore, studio, politica, denaro, fino al cibo e al riposo, senza nulla dimenticare – né l’amicizia, né la speranza, né il perdono, né la rabbia, né la pazienza. Dentro infatti ogni gesto sta il passo verso il proprio destino». Se non ci si impegna col finito, diventa astratto o addirittura svanisce l’impegno con l’infinito. Mi è parso un sintetico commento al passo giussaniano appena citato una frase di Giancarlo Cesana recentemente pronunciata a un ritiro spirituale per l’Avvento: «L’attesa si nutre dell’intensità con cui si vive il presente. Se si vive intensamente il presente, si capisce ciò che manca e che cosa quindi bisogna attendere». L’amico Giovanni Gibelli mi ha fatto notare che lo stesso concetto era stato espresso da Julian Carron agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione 15 anni fa, in occasione della lezione del sabato pomeriggio. Non ho motivo di dubitarne, anche se non riesco a verificare di persona: certe verità ripropongono la loro durevole evidenza nel tempo. Quando ancora non era stato comunicato il risultato del voto referendario, ed io ero convinto che sarebbe stato negativo per le sorti della parte per cui mi ero impegnato, cercavo una frase da scrivere sulla mia pagina Facebook a illustrazione del significato più vero dello sforzo compiuto. Significato che nessuna sconfitta e nessun conseguente sfottò poteva cancellare. E la scelta era caduta sulla frase di Giussani. In occasioni come la campagna referendaria, ci si fanno nuovi amici e nuovi nemici, si incontra gente che ti ringrazia perché gli sei stato di aiuto nella scelta finale e altra che si arrabbia con te e ti guarda come un irresponsabile e un traditore. I nemici di oggi diventeranno gli amici di domani e le nuove amicizie non svaniranno se sapremo guardare agli uni e alle altre da persone impegnate con la propria e l’altrui vita secondo l’integralità della nostra natura.
Foto Ansa
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