La guerra impossibile contro l’Iran atomico
Sale la tensione tra il mondo occidentale e l’Iran. Dopo l’assalto all’ambasciata britannica a Teheran, le prese di posizione dei paesi occidentali si fanno più dure. «Sono sicuro che oggi adotteremo una serie di misure e sono particolarmente focalizzato sul settore finanziario» ha detto ai giornalisti il ministro britannico degli Esteri, William Hague, aggiungendo che le nuove misure costituiranno «una intensificazione della pressione economica sull’Iran». «Si tratta di prosciugare le fonti finanziarie dell’Iran ha sottolineato il ministro tedesco», Guido Westerwelle. Il ministro francese Alain Juppè ha anticipato essere sua intenzione chiedere l’embargo petrolifero totale.
Il ministri degli Esteri italiano, Giulio Terzi, ha convocato stamane l’incaricato d’affari della Repubblica islamica dell’Iran a Roma, Mehdi Akouchekian. Al diplomatico iraniano è stata manifestata la «fermissima condanna, da parte del governo italiano, dell’episodio di violenza» accaduto all’ambasciata britannica a Teheran. L’Italia, insomma, si schiera al fianco del governo del Regno Unito cui è stata espressa «piena solidarietà». L’Italia «si riserva di valutare, insieme agli altri paesi dell’Unione Europea, come reagire per scongiurare il ripetersi di episodi del genere». Il diplomatico iraniano ha assicurato che, nei confronti dei responsabili, «verranno adottate misure urgenti e necessarie». Ma questo pomeriggio l’Italia ha ritirato il suo ambasciatore in Iran.
Pubblichiamo di seguito l’articolo “La piovra atomica” a firma di Gian Micalessin che appare sul numero 48/2011 di Tempi, in edicola da oggi.
Più che un piano di guerra è un incubo. Un incubo per i generali chiamati a pianificarlo e per i politici costretti a ipotizzarne le conseguenze su scala mondiale. È la madre di tutte le guerre mediorientali quella progettata per ridimensionare la potenza iraniana e impedirle di mettere in cantiere l’arma atomica. Ma anche quella capace d’incendiare l’intera regione, bloccare i canali di approvvigionamento energetico dell’Europa e farci fare un altro salto all’ingiù nell’abisso della crisi economica.
A detta di molti è semplicemente una guerra impossibile. Il primo a pensarlo è Meir Dagan. L’ex capo del Mossad israeliano, ritiratosi all’inizio dell’anno, non esita a definirla «la più stupida idea mai sentita». Meir Dagan non è proprio una mammoletta. Iniziò la sua carriera con Ariel Sharon all’interno di un’unità speciale dell’esercito israeliano incaricata di eliminare i capi palestinesi di Gaza negli anni Settanta. L’ha terminata pianificando e autorizzando le più spregiudicate operazioni messe a segno dal servizio segreto negli ultimi anni, tra le quali l’eliminazione di numerosi scienziati nucleari iraniani, la contaminazione con il virus Stuxnet dei loro computer, l’uccisione a Dubai di Mahmoud al Mabhouh, l’ufficiale di collegamento tra Hamas, Teheran ed Hezbollah. Eppure Dagan è oggi il più agguerrito detrattore dei piani d’attacco israeliani ai siti nucleari iraniani. Sa che un’operazione di quel tipo avrebbe conseguenze molto più gravi e serie di quella messa a segno nel 1981, quando i caccia bombardieri israeliani distrussero il reattore nucleare iracheno di Osirak. O di quella del settembre 2007, quando venne raso al suolo un impianto nucleare siriano.
In Iran esistono oggi almeno 20 siti nucleari conosciuti, senza contare quelli sfuggiti all’Aiea e ai servizi segreti occidentali. Alcuni laboratori bunker per l’arricchimento dell’uranio, come quelli costruiti a 90 metri di profondità nel cuore di una montagna intorno a Qom, sono praticamente inattaccabili. Per colpirli e distruggerli Israele ha solo due alternative. La prima comporta l’utilizzo di testate atomiche tattiche. La seconda richiede una serie prolungata di attacchi e raid con le armi convenzionali destinati a protrarsi per settimane. Entrambe sono improponibili. L’utilizzo di un’arma atomica per impedire a Teheran di entrare nel club nucleare realizzerebbe un tragico paradosso capace di distruggere l’immagine dello Stato ebraico. Il protrarsi degli attacchi costringerebbe Israele a combattere una guerra su più fronti. Un blitz iniziale sull’Iran scatenerebbe la reazioni delle milizie palestinesi di Hamas e di quelle sciite di Hezbollah, che colpirebbero Israele da Gaza a sud e dal confine libanese a nord. Grazie ai nuovi missili schierati dal Partito di Dio in Libano neanche Tel Aviv sarebbe risparmiata dalla pioggia di missili. Al Sud non andrebbe meglio. Durante l’ultima fase della guerra civile in Libia, la Brigata Al Quds, la forza speciale dei pasdaran specializzata in operazioni clandestine all’estero, ha battuto tutti i vecchi depositi d’armi gheddafiani impadronendosi di centinaia di missili antiaerei di fabbricazione sovietica fatti poi arrivare attraverso il Sinai nella Striscia di Gaza. Oltre a colpire tutte le città del meridione israeliano, Hamas potrebbe, grazie alle nuove forniture, difendersi anche dalle incursioni di elicotteri e aerei israeliani.
A rischio le nostre truppe e l’Eni
Un eventuale blitz israeliano minaccia dunque di scatenare una guerra di ben più vasta portata e d’imporre a Israele un costo in termini di vite umane insopportabile, come ha dimostrato l’esperienza della guerra con Hezbollah dell’estate 2006. Gli scenari di un conflitto guidato da una coalizione più vasta, con alla testa Stati Uniti e Regno Unito, sono ancor meno incoraggianti. Il primo punto debole sarebbe la mancanza di legittimazione internazionale. La Russia appaltatrice della centrale nucleare iraniana di Busher e la Cina, grande importatrice di greggio iraniano, imporrebbero il veto. L’Occidente si misurerebbe con un’opinione pubblica poco disposta, dopo l’esperienza irachena, a credere alle rivelazioni sulle armi di distruzione di massa. Un’operazione unilaterale non mancherebbe di creare divisioni all’interno della Nato, innescando non solo la scontata opposizione della Turchia, ma probabilmente anche quella di Germania e Francia. E se sul fronte politico la questione è complessa, su quello militare è addirittura un rompicapo. Per abbattere Gheddafi con la sola forza aerea la Nato ha impiegato cinque mesi. Piegare un paese di 75 milioni di abitanti grande cinque volte l’Italia senza un intervento di terra richiederebbe molto più tempo. Anche perché in Iran non esiste un fronte interno. I circoli dell’opposizione, già duramente colpiti dalla repressione, non dispongono di strutture militari in grado di dar vita a una rivolta simile a quella libica o siriana. L’attacco esterno, come dimostrò negli anni Ottanta la guerra innescata dall’Iraq, rafforzerebbe inoltre il tradizionale nazionalismo, spingendo molti oppositori a rivedere le loro posizioni.
Ma la conseguenza più preoccupante sarebbe l’inevitabile allargamento regionale della Repubblica islamica. Teheran in caso di attacco non mancherebbe di attivare le milizie sciite irachene, annettendosi di fatto anche le province del paese, da Baghdad a Bassora. L’azione destabilizzante delle milizie sciite filoiraniane lungo quel fronte metterebbe a rischio anche gli importantissimi investimenti realizzati dall’Eni nella provincia di Bassora, dove la nostra compagnia s’è aggiudicata le commesse per lo sviluppo dei giganteschi pozzi petroliferi di Rumaila e Zubair, destinati a rimpiazzare proprio le importazioni di greggio iraniano. Ma l’Italia rischierebbe anche un coinvolgimento diretto dei soldati schierati in Libano e in Afghanistan. Una rappresaglia della Repubblica islamica in caso di nostra adesione alla coalizione belligerante potrebbe colpire le nostre basi in Afghanistan occidentale, situate a pochi chilometri dal confine iraniano. Mentre i nostri 1.500 soldati schierati come caschi blu nell’ambito della missione Unifil nel Sud del Libano si ritroverebbero tra il martello dei missili di Hezbollah e l’incudine di un esercito israeliano poco disposto a far complimenti quando si tratta di difendere i propri confini.
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