La guerra del nord

Di Gian Micalessin
19 Agosto 2004
L’IRREFRENABILE GIOIA DEI CURDI, LA DESOLAZIONE SPETTRALE DI TIKRIT. LE POSTAZIONI DI AL ANSAR DEVASTATE E LE PRIME AMBIGUITà. LA GUERRA SEMBRA SBAGLIATA MA ANCHE FACILE

Teheran, lunedì 17 febbraio 2003.
Sta per cominciare un’altra guerra. Ne ho viste più di trenta in vent’anni di lavoro, ma se mi avessero detto che sarei partito da Teheran non ci avrei creduto. Non che gli iraniani autorizzassero i giornalisti ad arrivare in Kurdistan per assistere ad una guerra di Bush. Sono andato dall’ayatollah Sayed Mohamed Bakr Al Hakim, il capo spirituale dello Sciri (Consiglio supremo della rivoluzione sciita in Irak). L’avevo incontrato nel ’99, quand’era un relitto, il simbolo di una lotta sciita incapace di scalzare Saddam Hussein. Oggi è al centro dell’attenzione internazionale. «Rifiutia-mo l’idea di un regime degli infedeli», mi ha detto con la solennità di una fatwa. Un dietrofront inatteso ed imprevisto dopo mesi in cui il sì dello Sciri veniva dato per scontato. Ma ora questo ayatollah 64enne, esule in Iran dal 1979, infila un’altra spina nel fianco della Casa Bianca. Non pensa già più alla guerra, ma a quello che verrà dopo. «Per gli irakeni un’amministrazione imposta da Washington sarà un’invasione. La gente non sopporterà un “regime degli infedeli”. È un’incompatibilità religiosa. Per gli irakeni sarà come un’aggres-sione». Lo incalzo, gli chiedo se esista la possibilità che prendano le armi contro gli americani. «Se il popolo rifiuterà l’invasione – mi risponde – noi la fronteggeremo».

Chamchamal (Nord Irak),
20 febbraio 2003

Montagne fango e neve, in mezzo un crocchio di tende biancastre. Siamo arrivati nel nord Irak. Il campo profughi di Takia è un accampamento affondato nella melma. Fuori coriandoli di fumo appesi al cielo, dentro donne uomini e bimbi curdi accoccolati intorno a stufe e samovar. Ultimi scampoli di un esodo trentennale. Gli ultimi arrivati in questo limbo nord-irakeno dove dal ’91 riposa il sogno di una nazione curda. Il loro scudo si chiama 36° parallelo, l’esile barriera oltre la quale gli aerei irakeni non possono volare. Tutt’intorno i confini di Siria, Turchia ed Iran. Lì, 45 chilometri ad Occidente, oltre i picchi innevati, c’è il sogno di sempre: Kirkuk, la capitale che i curdi non hanno mai avuto, l’eldorado del petrolio o, forse, l’inferno di domani. Tra qualche settimana questa linea di confine sarà prima linea. Riprenderà la guerra di ottant’anni fa quando gli inglesi strapparono Kirkuk all’Impero ottomano. Da allora il nocciolo della questione è sempre l’oro nero. Dai pozzi scavati nel cuore della città escono oggi un milione di barili al giorno, metà delle esportazioni irakene. Ma la vera ricchezza sono i dieci miliardi di barili di greggio nascosti nel suo ventre, la seconda riserva dell’Irak, una delle più importanti del mondo. Nessuno la rivendica, ma nessuno è disposto a perderla. Non i curdi, non la Turchia che pur di non lasciare Kirkuk ai curdi è pronta anche a combattere. Gli americani invece ancora non si vedono. Qualcuno giura di averli incontrati a Sulaimaniya, ma le forze speciali, spedite qui quattro mesi fa, dovrebbero essere tra le montagne. Il loro numero è un piccolo rebus. Qualcuno parla di qualche centinaio di uomini. Qualcuno azzarda cifre superiori al migliaio. Di certo i preparativi sono in atto. A trenta minuti di macchina da Sulaimaniya il piccolo aeroporto di Bakrayo, una pista abbandonata da dieci anni, è stato ripulito e tirato a lucido dai peshmerga curdi. Qui già da domani potrebbero atterrare gli Hercules C117 carichi di soldati e armamenti.

Halabja, 25 marzo 2003
Ci siamo. La Tora Bora irakena è lì, tra i picchi innevati dei monti Shineray. Un intreccio di gole e creste gelate addossate al confine iraniano. Il primo avamposto è a duemila metri. Un semicerchio di pietre e camminamenti sospeso sulla cima che domina la pianura di Sharazoor. Su questo contrafforte erboso affacciato sull’altopiano, il generale Rahbar studia le proprie mosse. Combatte da 25 anni, ma da due i suoi nemici sono curdi come lui. «Dopo l’undici settembre – racconta – sono saltati fuori quelli di Ansar al Islam, i “partigiani dell’Islam”. Da allora qui non c’è più stata pace».
A Byiare – un villaggio a ridosso del confine iraniano diventatato la capitale dei seguaci irakeni di Osama Bin Laden – regna da due anni la legge della sharia. E tutt’attorno quella del terrore. I “partigiani dell’Islam” sono sulla lista nera di Washington. La preda più ambita si chiama Abu Musaab Zarkawi, il luogotenente di Osama che, dopo aver perduto una gamba in Afghanistan ed esser stato curato in un ospedale di Baghdad, sarebbe ricomparso tra gli anfratti di Byare. Da lì, secondo Washington, coordinerebbe gli attacchi agli Stati Uniti e all’Europa. E lì sarebbe finita una parte delle armi chimiche di Saddam.

Salahaddin (Nord Irak),
27 febbraio 2003

Alla fine è arrivato. Lo aspettavano da settimane, ma dell’“afghano” Khalizad nessuna traccia. Era a Washington. Era ad Ankara. Era ovunque, meno che qui. Colpa del maltempo, dicevano. Ironia della sorte è successo martedì sera. Sotto una neve da notte di Natale. Zalmay Khalizad, il consigliere di Bush, l’uomo che inventò Amid Karzai e lo regalò a Kabul, alla fine è comparso. Ed i giochi sono iniziati. Questa volta serve un Karzai per Baghdad. La conferenza dell’opposizione irakena, quella dell’Iraqi National Congress di Ahmed Chalabi, dei curdi, degli sciiti e delle altre forze in esilio doveva alzare il sipario il 31 gennaio. Ora è fine di febbraio. Dentro Khalizad sta già parlando di democratizzazione, federalismo, di «momento sempre più vicino». Ma dal cilindro salta fuori anche un coniglio irsuto. Si chiama esercito irakeno. Un esercito che una volta riformato, spiega Khalizad, «dovrà continuare ad aver un ruolo importante». I 56 delegati dell’opposizione già si chiedono come convivrà la loro democrazia con quell’esercito patrigno di tutte le dittature passate e presenti. Ma il messaggio è fin troppo chiaro: «Speriamo che l’esercito partecipi alla liberazione, che si rifiuti di usare le armi di distruzione di massa». L’esercito è convocato. Se c’è, deve solo battere un colpo.

Sulaimaniya, 17 Marzo 2003
L’occupazione principale mia e di Sandro Contenta (il giornalista del Toronto Star d’origine italiana con cui divido la stanza ufficio al Palace Hotel di Sulaimaniya) sono i preparativi. Abbiamo comprato un generatore cinese da 105 dollari per satellitari e computer e iniziato a far provviste. Ieri abbiamo spedito Mohammed (il traduttore) e Tawil (l’autista) a comprarsi le tute Nbc e le maschere antigas al bazaar… Adesso stiamo cercando un fuoristrada e intanto facciamo incetta di acqua, taniche, cibo in scatola. Abbiamo provato maschere antigas e tute. Devo decidere se farmi crescere la barba o no. I peli non garantiscono l’impenetrabilità della maschera, ma con occhiale scuro, giubbotto e calzoni neri e cranio rasato sembro della Cia. Pericoloso in caso di cattura. La conferenza stampa delle Azzorre sembrava un ultimatum all’Onu anziché a Saddam. Vi diamo 24 ore per autorizzarci a fare la guerra e, comunque, la faremo lo stesso. Verrebbe da chiedersi se bombarderanno il Palazzo di Vetro o Baghdad. Non sono certo un pacifista, ma stento a trovare una ragione per questa guerra. Mi chiedo quali ne saranno le conseguenze. Al Qaeda in Irak non c’è mai stata. Il fondamentalismo è un rischio per Saddam, per questo non ha mai cercato un’alleanza con Osama. L’Irak in questi anni ha fatto da tappo alla circolazione dei fondamentalisti. Un tappo fondamentale all’intersezione tra Iran, Arabia Saudita, Turchia, Siria, Giordania. Non a caso gli americani ci vogliono essere. Non solo per il petrolio, ma per trasformarlo in una base nel cuore del Medio Oriente in caso di caduta dell’Arabia Saudita. Ma se con la fine di Saddam arrivasse anche Al Qaeda?

Chamchamal (Nord Irak),
18 marzo 2003

Ci siamo: la guerra è nell’aria. Fuggono i curdi della frontiera. Scappano quelli di Kirkuk. Auto, camion e bus sostano in fila. Ai lati della strada montagne di coperte, televisori, divani, pentole e tappeti. Dentro, annegati tra i bagagli, donne, vecchi e bimbi. Fuori, loro, gli uomini, legano, spingono, ammassano e sudano. Quel che proprio non ci sta viene riportato a casa. Tra folate di vento e nugoli di polvere la fiumana si muove. Dietro resta una città semivuota. Chamchamal trasloca. Chamchamal fugge. Chamchamal se la dà a gambe. Tareq Rashid la guarda e sospira. Lui per oggi resta, ma solo perché è il sindaco. Il capitano rimasto a guardare la nave che affonda. «E voi al nostro posto cosa fareste? Qui viviamo in 57mila, tutti curdi, per noi non è una nuova guerra, è la solita vecchia guerra. E dall’altra parte c’è sempre Saddam. Come si fa a non aver paura?».

Chamchamal (Nord Irak),
19 marzo 2003

Ibrahim lucchetta la garritta, afferra il kalashnikov e carica in macchina la sedia. «Halash, basta: si torna a casa. Qui non c’è più nessuno e ora sparano pure. I due colpi di mortaio sono caduti lì, sotto le montagne, poi hanno sparato una raffica di mitragliatrice. È arrivata a dieci metri di qui». Tutt’intorno il fronte nord sonnecchia nella pioggia e nel fango. I peshmerga s’attendevano un inizio tutto fuoco e tutto bombe. Invece non è successo niente. Al primo giorno di guerra, queste linee sembrano già un fronte dimenticato. E il sogno di una veloce conquista di Kirkuk sembra già svanito.

Chamchamal (Nord Irak),
27 marzo 2003

Quel che rimane è tutto sulle spalle dei peshmerga. Un mortaio da sessanta millimetri su quelle di Alì Jaza. Un sacco di kalashnikov tra le braccia di Abdallah. Una maschera antigas in testa ed una al collo per Mohammed Sala. Loro se ne sono andati e la razzia è incominciata. È la prima falla nel fronte nord. Dietro quel varco s’è aperta anche la grande incognita di questo fronte settentrionale. Oggi i peshmerga non hanno atteso un attimo per muovere i primi passi verso Kirkuk. Se la rotta irakena continuerà, nulla impedirà la loro avanzata verso i pozzi petroliferi. Alle nostre spalle non vi sono oggi più di duemila fra paracadutisti e truppe speciali americane. Pochi per arginare la marea curda. Pochissimi per fermare le truppe turche se Ankara deciderà di partecipare alla corsa per il petrolio di Kirkuk. In questa situazione i bombardamenti americani si rivelano un’arma a doppio taglio. Intensificandoli Washington accelererà il collasso delle linee irakene e il rischio di un’interferenza turca. Arrestandoli paralizzerà il fronte nord.

Byare (Nord Irak), 1° aprile 2003
Alcuni ritornano. Li accompagnano i peshmerga con fazzoletti e maschere da chirurgo schiacciate sul volto. Sono una dozzina ammonticchiati sul pianale di un camion. Sacchi senza forma, coperte rosse di sangue e lezzo di morte. Cadaveri raccolti tra i boschi e nelle trincee scoperchiate dalle bombe. Brandelli umani, lamiere di una Toyota e resti di missile all’entrata del sentiero. In fondo alla gola di roccia e prati le case di Sargat. È tutto quel che resta della Tora Bora irakena. A Sargat i miliziani curdi campeggiano tra le rovine. «Abbiamo fatto solo due prigionieri. Avevano addosso le cinture esplosive. Quando ci avvicinavamo si facevano saltare. Uno è esploso qua dietro. È rimasta solo la testa». Nel bagno di una moschea un laboratorio che sembra quello della strega Amelia. Pentoloni, ampolle, composti misteriosi e un fornello su cui far bollire gli intrugli. Se da questa broda di intrugli e pozioni primitive qualche stregone islamico sia veramente riuscito a ricavare un briciolo di veleno è difficile da dire. E, per ora, non lo dicono neppure gli americani.

Kirkuk, 10 aprile 2003
La fiumana divora la strada. Camion di peshmerga, auto con padri e ragazzini, donne e uomini a piedi. Un ingorgo di mitra ed ebbrezza, urla e follia. Un solo grido: «Kirkuk!». Alle dieci i leader dell’Upk (Unione patriottica curda) hanno mandato avanti i peshmerga. Le forze speciali americane erano già lì. L’ultima resistenza è nella piazza del governo. Lì, asserragliati nel palazzo dietro la statua di Saddam, resistono gli ultimi manipoli di fedelissimi. Alle due di pomeriggio anche loro sono in fuga e la folla straripa nel centro. Dalle case escono loro, gli uomini e le donne di Kirkuk. «Viva Bush, viva l’America!». Non vi sono segni di battaglia. Piuttosto quelli del saccheggio. Davanti alla sede del partito Baath del quartiere Imam Qassam, all’estremità nord-orientale del centro, la gente esce in fila trascinando una sedia, una lampada o un’intera finestra. Davanti al palazzo del governo un enorme Saddam di bronzo già traballa. Il mantello arabo fuso nel metallo oscilla sopra la folla. Un ragazzo gli si è arrampicato fin sopra il capo. Gli batte gli occhi con una ciabatta, gli stringe un cappio d’acciaio al collo. «Trentamila dollari è costata, tiratela giù per sempre», ulula la folla impazzita. Poi un boato di gioia, la testa si schianta sull’asfalto, rimbalza, vola via, rotola fino ad un braccio di bronzo ripiegato. Il sogno di un’epoca si è compiuto. Oggi Kirkuk è di nuovo la capitale curda.

Tikrit, 14 aprile 2003
Moenia Tigride, la fortezza sul Tigri. I romani la chiamavano così. Così non è oggi. La fortezza ha le porte spalancate, divelte, infrante. Il ponte è una voragine di acciaio e cemento trapassata dalle bombe. Sotto, il Tigri limaccioso si porta il ricordo del rais. Loro sono già lì. Otto blindati della prima divisione marines accalcati su quel che resta delle arcate. I marines sul ponte dormono sdraiati al sole dopo una notte di avanzata e battaglia. Quelli in piedi ti tengono sotto tiro. Il Black Hawk ora sfiora i tetti. Un Cobra infila due missili nella periferia nord. Il palazzo del rais è davanti a noi. Due battenti neri spalancati sulla follia. Un borgo di cupole e palazzi, fregi barocchi e arcate moresche. Un gigantesco presepe del kitsch incastonato in una cittadina di calce e mattoni. Sotto, Tikrit attende. Imperscrutabile come il suo figlioccio. Fuori, la città si è risvegliata. Una fila di formiche laboriose invade un altro dei palazzi del rais. Cinque marines le trattengono. Il saccheggio si consuma sotto i loro occhi. Il sergente impone l’unica regola possibile. «Chi è dentro prenda tutto quel che riesce a portare… Chi è fuori se ne vada».

Owja, 15 aprile 2003
Forse era già tutto scritto. Lui nacque qui in quest’ansa di sassi e terra nella melma del Tigri. Tredici chilometri a sud di Tikrit in una località che fin da allora tutti chiamavano Owja, la “storta”. Da qui arrivavano tutti i peggiori delinquenti di Tikrit. E in quell’aprile del 1937 ne nacque uno tutto nuovo. “Mamma Sobha” lo battezzò Saddam, un nome che nel dialetto di qui significa “disgrazia”. Un nome che Saddam Hussein ha interpretato alla perfezione per 66 anni. Ora la disgrazia è tornata a casa. Di 150 famiglie non ne è rimasta neppure una. Tutti fuggiti. Tutti scappati. Tutti, meno il signor Moham-med Nasseri. «Sono scappati tutti dieci giorni fa. Avevano paura… E chi non l’avrebbe? Gli americani hanno condannato a morte il loro presidente e la sua tribù di Owja non è certo rimasta ad aspettarli».

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