La depressione di massa delle donne, frustrate da un mondo che le vuole uguali agli uomini

Le donne sono infelici. A Milano, soffre di depressione una donna su quattro. Più del doppio dei maschi. Anche in zone più tranquille delle metropoli, però, le cose non vanno meglio. È brutto per le donne, ma non solo per loro. Quando soffre la donna, dalla quale tutti nasciamo e con la quale molti uomini passano la loro vita, questa sofferenza contagia inesorabilmente la società. Soprattutto la nuova società, quella di domani, che nasce in un grembo infelice e viene accudita con sofferenza. Ma perché sono infelici le donne? Le spiegazioni sociologiche abbondano: società maschilista, troppo competitiva, servizi scarsi, doppio e triplo peso per le donne (lavoro, casa, bambini, e spesso anche un marito che tende a farsi accudire come un bimbo). Tutto vero. Manca, però, un tassello decisivo.
Lo si vede meglio quando osserviamo che le più infelici di tutte sono quelle che i media portano a esempio per tutte: le famose “vincenti”, quelle che sono al top della carriera, al top dei guadagni, e che quindi della scarsità dei servizi potrebbero tranquillamente infischiarsene, perché sono in grado di finanziarseli da sole. Invece sono ottime clienti di psicoterapie e consumatrici di psicofarmaci. Come mai? Il fatto è che, aderendo alla proposta di eguaglianza, di “essere come un uomo”, di mettere al centro della propria vita i valori maschili del guadagno e del successo, la donna svaluta la sua ricchezza specifica, la qualità che dà pienezza alla sua vita e a quella degli altri, la sua capacità e vocazione: accogliere l’altro, stabilire una relazione affettiva, portare nel mondo la forza del sentimento di tenerezza per sé e per l’altro come persona. Si produce allora come un indurimento affettivo al quale il maschio è addestrato, anche se è suo compito, psicologico e spirituale, trasformarlo, integrando nel corso della vita anche la parte femminile, attraverso la relazione con la donna che risveglia e attiva l’aspetto corrispondente, presente anche nella psiche dell’uomo.
Mentre per l’uomo la durezza è una condizione di partenza, sulla quale deve poi sviluppare la sensibilità che lo rende completo, per la donna aderire a quel modello rappresenta una perdita che la priva di quella vocazione alla relazione che è sentita da lei stessa come centro della personalità e come percorso verso l’autentica realizzazione e la felicità. È sempre questa svalutazione di ciò che il pensiero della differenza (ma anche Benedetto XVI) ha identificato come la ricchezza specifica del femminile che spiega l’attuale impennata nelle depressioni dopo il parto, quando la donna ha appena messo al mondo una nuova vita. In quel momento tutto dentro di lei è teso all’accudimento, all’unione profonda col bimbo, all’identificazione con l’altro. Questa straordinaria esperienza, però, non è più riconosciuta dal modello di cultura collettivo nella sua grandezza e importanza. È ridotta a “funzione” da trasferire il più rapidamente possibile a servizi o ad altri, cancellando l’insostituibile carattere personale di questa fondamentale fase della vita.
La loro identità profonda non è più onorata, e la loro anima se ne accorge. Ecco perché le donne sono depresse. Ecco perché tutti dobbiamo cambiare.
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