

Come a ogni vigilia di elezioni, si è discusso anche quest’anno di voto cattolico, stavolta nella variante di “cultura cattolica”, suscitata da un pezzo interessante di Roberto Righetto su Avvenire. Molti gli interventi, formali e informali e grande è la confusione. Proviamo a fare chiarezza.
Si usa la locuzione di cultura cattolica da quando essa non è più condivisa. Nessuno nel Medioevo si sarebbe sognato di parlare di “cultura cattolica” perché essa coincideva con la cultura stessa. Il termine, utilizzato in opposizione a ciò che derivava dal protestantesimo, prese poi il suo senso attuale nel XIX secolo, soprattutto quando la Chiesa cominciò a stabilire una dottrina sociale e a entrare in conflitto con la cultura scolastica e universitaria degli Stati nazionali.
In questo senso, cultura cattolica divenne una locuzione utile per descrivere una minoranza dell’élite intellettuale legata agli insegnamenti del Pontefice e una maggioranza della popolazione di molti paesi, tra cui l’Italia. Persa progressivamente la maggioranza – anche in Italia – si cominciò dunque a chiedersi che cosa fosse, che cosa dovesse essere e come dovesse funzionare la cultura cattolica per essere significativa.
Si crearono così, nel secondo dopoguerra, due grandi filoni: coloro che pensavano che la cultura cattolica fosse soprattutto una riflessione e un’ermeneutica, cioè un’interpretazione o una riproposizione sistemica a partire dai Vangeli, e coloro che ritenevano che essa fosse lo sviluppo di un’appartenenza comunitaria che ripeteva l’esperienza evangelica. I primi per lo più mettevano al centro la questione della Parola evangelica, che va interpretata. I secondi il legame con l’esperienza dei sacramenti e della vita comunitaria.
Verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso la posizione dei primi si era evoluta in un forte eticismo – il cristianesimo come questione di valori – mentre la seconda, soprattutto grazie al fiorire dei movimenti sotto il papato di Giovanni Paolo II, aveva sottolineato le implicazioni esistenziali e sociali. Tra le due posizioni si era così creato un solco, che finiva per opporre pensiero e fede, intellettuali e popolo cristiano, logica ed evento.
La soluzione si trovò in realtà a partire dal legame tra quelle che lo stesso Giovanni Paolo II chiamava la cultura primaria dell’essere e la cultura secondaria della conoscenza e dell’uso. Il termine chiave in questo senso è quello giussaniano di “avvenimento”, usato come descrizione della fede sia da Benedetto XVI che da Francesco. È ormai chiaro che la fede è un avvenimento e non una riflessione o un insieme di valori o un impegno sociale (“non è una Ong”, nella celebre espressione del Papa attuale), ma dall’avvenimento deve nascere una cultura, intesa come coscienza critica e sistematica dell’esperienza della fede.
Se tale coscienza culturale non nasce, l’avvenimento resta vago e tende a diventare sentimentale. Se invece la coscienza culturale obnubila l’avvenimento inziale, tende a diventare intellettualismo conservatore o relativista. Per descrivere questi due ultimi atteggiamenti, il Papa attuale ha usato le antiche categorie di pelagiano e gnostico, le due grandi eresie antiche.
Posto che tutte queste posizioni possono essere ancora ravvisabili e rincorse, penso che il dibattito abbia perso di rilevanza per due ragioni. Da un lato, come detto, esso ha trovato pacificazione nelle dichiarazioni dei papi; dall’altra, nel frattempo, il cattolicesimo è diventato cosciente di essere una piccola minoranza in Europa, ritrovando però occasionali punte di creatività, come Benedetto XVI auspicava. In questa situazione, non è pensabile che si crei una nuova cultura cattolica nel senso di una risposta onnicomprensiva e sistematica, o addirittura produttrice o foriera di mentalità dominanti. E, d’altro canto, non è pensabile, che il cattolicesimo viva solo di risulta, ossia di reazione a quanto proposto dalla mentalità dominante. O peggio ancora, che si confonda con essa.
Ora come ora, ciò che si trova, come in tutte le epoche di crisi, sono singoli gruppi o persone creative che, innestati nella tradizione della Chiesa, sono capaci di suggerire sentieri nuovi, di esperienza e di pensiero. Perché questi sentieri diventino strade e poi piazze o città occorrerà molto tempo, ma non tendere alla lunga a questo risultato sarebbe sciocco almeno quanto il non vederne la difficoltà di realizzazione a breve sarebbe cieco.
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