Tremende bazzecole
La cieca che si fa bella e la moda che getta fumo negli occhi con i suoi modelli asessuati
Potrebbe sembrare una barzelletta. Tipo: «Qual è il colmo per una donna non vedente? Iscriversi a un corso di make up». Invece è una notizia vera e molto istruttiva, perché in effetti non è scontato dire chi ci vede davvero e chi no. Ad esempio, a Milano è andata in scena la settimana della moda e niente più del mondo fashion dovrebbe essere una ghiotta e luccicante occasione per gli occhi. Eppure la mia vista si è un po’ annebbiata; potendo solo permettermi di guardare le foto sul web, mi ci sono dilettata per qualche minuto, ma ho trovato francamente difficile distinguere i modelli maschi dalle loro colleghe femmine, specialmente nella collezione della maison Gucci.
Non mi ha esattamente rasserenato constatare che anche i giornalisti accreditati hanno avuto la stessa difficoltà. Lo hanno definito «lo stile senza genere», argomentando che da sempre la donna ruba dei capi dall’armadio del compagno e viceversa. Mi ha rasserenato di più leggere che il signor Armani ha fatto dichiarazioni in controtendenza a questa intenzionale fusione/confusione di maschile e femminile; e ha detto infatti: «L’uomo non può vestirsi come una donna se non per piccole cose, per un foulard o un colore».
Un certo falegname di Giudea era solito parlare in parabole e lo giustificava dicendo «affinché vedendo non vedano». Non era tipo da mettere fumo negli occhi, gli premeva molto la libertà umana: e allora diceva le cose in modo che, a prima vista, ci fosse solo una storiella, che uno poteva gustarsi per cinque minuti e poi dimenticare; ma se corroborata dall’esperienza, quella parabola era capace di mettere a fuoco la vita come nient’altro al mondo. La pecorella smarrita è un racconto bucolico, finché non ti perdi davvero e poi, solo e angosciato nel tuo guscio triste, senti una mano tesa che si prende la briga di venirti a cercare. A quel punto vedi. Vedi meglio il cuore del tuo bisogno, grazie a quella storiella.
C’è invece chi spiattella le cose davanti ai nostri occhi proprio affinché vedendo non si veda niente. Una cortina fumogena che è il contrario della parabola: si acconcia così tanto un modello da renderlo asessuato. Come se le nostre corporali peculiarità fossero un insignificante dettaglio velleitario, trascurabile, interscambiabile. Leggero come un foulard. Passeggero come le stampe a fiori. Double face come un impermeabile.
Ritorno perciò alle signore non vedenti che vogliono farsi vedere belle. Esiste davvero un corso di make up per ciechi a Torino. Allora, per un attimo m’immedesimo nei pensieri di una di queste signore, banalizzando senz’altro la cosa: «Ecco, il mio volto c’è anche se io dalla nascita non l’ho mai potuto vedere. Qualcuno però lo vede, anzi quasi tutte le persone che conosco lo vedono. Un po’ li invidio. Io lo tocco e provo a immaginarlo, sento le rughe, le ciglia, la gobba del naso. La mia amica mi dice sempre che il taglio delle mie labbra è perfetto. Le credo, perché credo a quello che c’è. Perché oltre il buio dei miei pensieri, che talvolta mi opprimono tanto, il mio corpo è una presenza riconoscibile e unica. Allora prendo il gloss color pesca (me lo dice l’etichetta scritta in braille) e mi metto a ripercorrere le linee delle mie labbra dipingendole, ravvivo e lodo il disegno di chi mi ha voluta così».
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