La Casa dell’accoglienza di Milano, la dimora dove “nascono” le mamme

Di Chiara Rizzo
03 Ottobre 2014
Storia di alcune delle donne accolte nella Casa di padre Bettoni che ora ha bisogno dell'aiuto di tutti per portare avanti la sua opera

Nella casa gialla di tre piani, su una piazza in zona porta Venezia a Milano, si sente sempre il vociare allegro di bambini in giardino. Hanno le bici, e qualcuno fa “le impennate”. Alcune bimbe si dividono un paio di rollerblade: ognuno ne indossa uno, e pattinano in coppia tenendosi per mano. Curiosamente, nel giardino si intravedono più mamme, a chiacchierare su una piccola panca. È la “famiglia” allargata della Casa dell’accoglienza di Milano, fondata nel 1997 da padre Giuseppe Bettoni per accogliere mamme (spesso ragazze sole) e bambini che vivono ogni tipo di disagio, da quello psichico, alla tossicodipendenza, alle violenze domestiche, e arrivano su segnalazione del tribunale dei Minori. Dal ’97 in questa casetta gialla sono passate 142 madri con i loro 162 figli. Lino, il responsabile, continua a ripetere: «Questa non è una comunità, ma una casa. Non è un alloggio, è un percorso che facciamo insieme, perché questa è davvero casa loro».

AISHA, COME TANTE. Aisha, 26 anni, è arrivata con i figli in seguito alla denuncia per maltrattamenti del marito. Era spaesata. Aveva la sensazione, malgrado tutto, di essere stata sdradicata dalla sua vita. Ma era stata picchiata tante volte, anche davanti ai due bambini, di 6 e 4 anni. Si era trasferita a Milano dal Nord Africa per seguirlo, e aveva sempre vissuto chiusa dentro quelle mura. Qui ha ripreso a studiare. Una cosa che l’appassiona, perché Aisha è una donna molto intelligente e fin da ragazza ha amato leggere libri, ma poi con il matrimonio è stata costretta ad abbandonare tutto. Oggi frequenta dei corsi di italiano, di inglese e di informatica. Ha vissuto molti momenti di sconforto, periodi in cui si è chiesta se avesse sbagliato, perché la sua cultura d’origine non ammette che una donna possa badare a se stessa e lavorare e perché la sua famiglia non ha approvato la sua scelta, malgrado le violenze subite.
Inizialmente, Aisha ha faticato a fidarsi degli educatori, perché è una donna molto riservata. Non riusciva ad aprirsi, a confidare l’inferno che aveva vissuto, così per qualche tempo se n’è rimasta ad osservare in silenzio. Guardava come si comportavano le mamme che andavano a lavorare, e lasciavano i figli alle cure di educatori e altre mamme. Un giorno si è accorta che i suoi bimbi erano sereni. Giocavano con gli altri, al mattino a colazione correvano incontro agli educatori per abbracciarli: loro sono stati il primo “ponte” per aprirla di nuovo al mondo. Nella casa ha re-imparare tutto – come avviene per tutte le ospiti – , a cominciare dalle dinamiche più semplici. Quando gli educatori le hanno detto la prima volta che sarebbe dovuta uscire, Aisha era spaventata: «Io non so cos’è la metro. Non so nemmeno in che parte della città mi trovo, né dove devo andare. Io non uscivo mai senza che mio marito mi ci portasse in auto. E se lo reincontrassi per strada?». Un educatore allora l’ha accompagnata, le ha fatto scoprire per la prima volta la metropolitana. Le ha dato coraggio. Così Aisha ha iniziato a portare in giro il proprio curriculum, nelle agenzie di lavoro. Adesso è quasi alla fine del suo percorso nella casa gialla. Presto inizierà un progetto di semiautonomia, vivrà da sola in un appartamento con i figli, e dall’anno prossimo inizierà a lavorare.

casa accoglienza Arché (1)
Le stanze private destinate a mamme e figli

EDUCARE ALLA BELLEZZA. Nella casa gialla oggi vivono 22 ospiti: 14 bambini (tra uno e dodici anni) e 8 mamme, che abitano sotto lo stesso tetto insieme a 6 educatori. La vita della casa è scandita da orari precisi. La sveglia molto presto, la colazione insieme. Ogni mamma accompagna i figli a scuola, chi ha un lavoro va a svolgerlo, le altre mamme invece tornano a casa per le faccende domestiche. Anzitutto le pulizie delle proprie stanze (sui due piani alti della casa), poi degli spazi comuni. A turni si prepara il pranzo, che è sempre alle 12. Per fortuna, la Casa è sostenuta – grazie all’intenso lavoro di Lino che ha creato convenzioni ad hoc – dalle donazioni di Siticibo (che consegna tre volte alla settimana il cibo fresco avanzato dalle menze aziendali), della mensa Atm e del mercato ittico, che dona il pesce fresco ma invendibile per difetti estetici.
Dopo pranzo un riposino, poi la merenda alle 16.30, un momento di convivialità libera, a cui si aggregano i due volontari che aiutano i piccoli con i compiti. Alle 19 la cena, preparata a turno dalle mamme, la doccia, un gioco tutti insieme o un po’ di relax in giardino. I bimbi vanno a nanna entro le 9.30, le mamme al massimo alle 23.30.
Un ritmo necessario, per scandire il ritorno ad una quotidianità normale. «Cerchiamo sempre di far sì che le donne rimangano il minimo in casa, e mai da sole in camera, a rimuginare – spiega il responsabile della casa, Lino –. Le spingiamo a portare i curricula in giro, a frequentare corsi di formazione professionale. Questo anche se spesso la loro condizione è vista come un ostacolo dai datori di lavoro. Noi proviamo a garantire per loro, di spiegare che meritano una chance, anche quando ci obiettano”sono state drogate”, “sono extracomunitarie”, “è negra”. E purtroppo ciò accade spesso. Spesso organizziamo delle uscite serali con i bambini. Andiamo al cinema, a mangiare un hamburger o a passeggio per la città. Vogliamo semplicemente far riscoprire loro che la vita ha una sua bellezza, che non è solo un padre che ti picchia». Ma la Casa oggi risente drammaticamente dei tagli al Welfare. È per proseguire questo percorso che fino al 5 ottobre è stata aperta una raccolta fondi, curata dalla Fondazione Arché di padre Bettoni (per donazioni o informazioni clicca qui).

Casa accoglienza milano
Una delle mamme ospiti con la sua bimba

«NON VOGLIO ABORTIRE». Mara ha bussato alla casa arrivando da una città del sud Italia, con tutta la bella insolenza dei suoi 21 anni e di un pancione, che le era cresciuto proprio mentre stava cercando di uscire dalla droga. Ha lasciato tutti gli educatori a bocca aperta quando ha spiegato che no, «non ci penso proprio ad abortire, io voglio tenere il mio bimbo. Lo tengo per fare un dispetto a mia mamma. Lei non voleva che avessi questo figlio dal mio ragazzo, e non ha mai avuto la minima fiducia in me. Invece io voglio dimostrare che posso farcela, saprò prendermi cura del mio bimbo».
All’inizio è stata dura, durante la gravidanza ha preso il metadone, dovevano accompagnarla gli educatori al Sert, anche quando il pancione era grande a dismisura. Pian piano ha iniziato ad occuparsi di una casa, e di altre mamme, e di altri bimbi. Ha osservato le mamme africane, che tenevano i loro bimbi nei marsupi sulle spalle, mentre facevano le faccende domestiche, e che non avevano paura a lasciarli in casa, perché «noi ci fidiamo di voi. Sappiamo che i nostri bimbi stanno bene».
Ecco, Mara ha respirato la fiducia a pieni polmoni. Così ha realizzato quello che aveva detto entrando nella casa gialla. Quando ha tenuto la sua bimba tra le braccia, ha sorriso, del sorriso più bello che in casa potessero immaginare, un sottile raggio di sole. Con la sua bimba, ha re-imparato ad essere donna, a prendersi cura di un’altra persona. Continuando a sentirsi imperfetta, ma senza lasciare alla droga il compito di lenire il dolore per le proprie imperfezioni e gli errori. Non c’era più nulla da dimostrare agli altri, se lì nella casa erano tutti pronti ad abbracciarla.
Adesso è “pulita” da oltre un anno e mezzo, e da un anno ha lasciato la casa, per andare a vivere in un appartamento. Lavora. Qualche giorno fa è passata a prendere un caffè, e per un attimo il suo sorriso è tornato a brillare tra queste pareti. «Con le mamme manteniamo sempre un rapporto, tornano sempre a trovarci, a raccontarsi. Abbiamo condiviso un pezzo di vita insieme, abbiamo dormito sotto la stessa casa, le abbiamo accudite. Per noi, rivederle alla fine del percorso ci ripaga di ogni fatica».

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