Jannone: «Vi spiego perché le intercettazioni sono un abuso»

Di Chiara Rizzo
29 Settembre 2011
Angelo Jannone è un ex ufficiale del Ros dei carabinieri e insegna Criminologia alla Sapienza di Roma. Intervistato da Tempi.it, sul ddl Alfano e sulle intercettazioni, ha spiegato: «Il grave errore è l'uso, anzi l'abuso che se ne fa. Le intercettazioni dovrebbero essere uno strumento di ricerca investigativo, non uno strumento di prova»

Angelo Jannone è stato ufficiale del Ros dei carabinieri, e ha condotto numerose indagini sulla criminalità organizzata in Sicilia e Calabria all’inizio degli anni ’90, alcune delle quali insieme a Giovanni Falcone. Ha comandato anche il Reparto analisi del Ros. In seguito è passato a lavorare nella security di Telecom Italia, fino alle dimissioni dopo l’inchiesta Telecom-Sismi. Oggi è docente di Criminologia all’Università Sapienza di Roma ed è consulente ed esperto di sicurezza e difese penali, nonché autore di diversi libri (l’ultimo, “Intelligence”, sulle tecniche investigative)

 

Pensa che le nuove modifiche introdotte dal ddl Alfano sulle intercettazioni, con un preciso elenco di reati per cui disporle, di solito per pene superiori ai cinque anni, in qualche modo ostacolino le indagini su criminalità, narcotraffico, pubblica amministrazione?
Non mi sembra affatto che si limitino le indagini. Infatti i reati di stampo mafioso, prevedono pene superiori ai cinque anni, quindi rientrano; sono elencati esplicitamente e non dimentichiamo infine per anni abbiamo vissuto senza problemi anche con il vecchio testo, che prevedeva l’intercettabilità per reati con pene superiori ai sei anni. Mi pare che espressamente vengano aggiunti altri delitti che riguardano la criminalità economica, come l’insider trading, l’abuso delle informazioni privilegiate. O come l’usura in tutte le sue forme,  o l’esercizio abusivo dell’attività creditizia. Poi ci sono i reati della pubblica amministrazione, quelli relativi agli stupefacenti, alle armi e al terrorismo. Il ventaglio è ampio: un difetto del testo è semmai che avrebbe fatto prima a citare tutti i reati della criminalità organizzata nel suo complesso contenuti nell’articolo 371 bis del codice di procedura penale, cioè i reati di cui si occupa la Procura nazionale antimafia (o quelli dell’art.51 comma 3 bis e ter codice penale, che riguardano le competenze delle direzioni distrettuali antimafia e in materia di terrorismo. Ma la sostanza non cambia). 

 

  

 

Il pm, con il nuovo ddl, per disporre intercettazioni su un indagato dovrà prima chiedere l’autorizzazione al Tribunale del capoluogo del proprio distretto (le procure però a volte possono essere dislocate, ndr), che decide in composizione collegiale. Cosa ne pensa di questo nuovo provvedimento?

In questo invece credo poco, lo considero un fatto esagerato che non è assolutamente compatibile con le tempistiche delle indagini. Oggi, con la procedura ordinaria, è prevista la richiesta del pm di autorizzazione ad avviare intercettazioni al Giudice per le indagini preliminari: un passo nuovo rispetto alla vecchia procedura, dove il potere di disporle era del solo pm. Ma una procedura già fin troppo lunga, sebbene il Gip di fatto  un ratificatore (non si è quasi mai visto un Gip respingere la richiesta). Infatti si ricorre spesso alla procedura straordinaria con il pm che prima dispone con un decreto urgente le intercettazioni e poi richiede il permesso al Gip. Il punto secondo me è che si dovrebbe incidere sul sistema di valori dei pm e non sulla procedura. Inserire un tribunale, che pur decidendo in composizione collegiale vedrà prevalere sempre la posizione di un giudice su altri, non fa altro che allungare dannosamente i tempi. In indagini dove però il tempo è essenziale: in quelle al narcotraffico, ad esempio, dove ci troviamo davanti a persone che cambiano continuamente schede telefoniche, quasi a ritmo quotidiano. Così si rischia di buttare via uno strumento importante per le indagini.

 

Lei ha conosciuto due diversi modi, nel tempo, di concepire le indagini: cosa pensa del modo attuale di farle? L’uso delle intercettazioni è secondo lei diventato abuso, a discapito del lavoro investigativo sul campo, o no? 

Le intercettazioni, diciamolo pure, come tutte le indagini tecniche (a tutti gli strumenti che si avvalgono dell’apporto delle tecnologie), hanno sicuramente trasformato le metodologie e la cultura investigative, e hanno fatto in qualche modo “sedere” l’investigatore. L’indagine è una ricerca di informazioni che servono ad avvicinarci il più possibile alla verità: e ci si avvicina di più, quanto è più ampia la gamma di strumenti che si usano. Meno strumenti di indagine usi più la verità è distorta, sfocata. Questo vale se si punta tutto solo sulle intercettazioni, o solo sulle dichiarazioni di pentiti, o solo sulle analisi documentali. Il difetto di fondo è che le intercettazioni dovrebbero essere uno strumento di ricerca investigativo, e non uno strumento di prova.

 

Anche per le mille insidie ed errori che caratterizzano le tecnologie. La prova la devo ricercare intervenendo in flagranza. Faccio un esempio: in un’indagine dell’87-’88 al narcotraffico, avevamo intercettato un trafficante. Diceva di dover consegnare delle magliette: allora poi lo abbiamo pedinato, e quindi abbiamo visto e documentato che si trattava inequivocabilmente di droga. Tutta questa attività veniva poi riportata meticolosamente nei rapporti di polizia, e finiva nel fascicolo del dibattimento. Il giudice aveva cioè una panoramica completa dell’indagine. Oggi che succede? Le intercettazioni vengono trascritte attraverso perizia, poi trasferite nel fascicolo del dibattimento, e il contenuto diventa di per sé prova tout court a disposizione del giudice. Che le leggerà prima di arrivare in aula, formandosi prima un’idea, o meglio un pregiudizio. Le prove testimoniali (comprese quindi le attività fatte dalla polizia giudiziaria, che racconta cosa ha visto e sentito sul campo in seguito alle intercettazioni, o che descrive i pedimenti) si formeranno però in aula in un secondo momento. Ma il giudice intanto si sarà fatto un’idea, magari distorta. È questa mentalità che va cambiata. Posso aggiungere un’osservazione?

 

Prego.

Va cambiata la cultura investigativa. Secondo me le indagini vanno lasciate a chi le sa fare sul campo, cioé la polizia giudiziaria, e il pm dovrebbe occuparsi di esercitare l’azione penale e di fare il controllore della legalità dell’operato della polizia giudiziaria. Nella polizia giudiziaria, lo raccontano i vecchi brogliacci di intercettazioni, una volta c’era il sacro rispetto della vita delle persone. Le conversazioni che non avevano pertinenza con i reati, venivano riportate come “conversazione non pertinenti”. Le bobine restavano comunque poi a disposizione: se la difesa aveva dubbi, venivano trascritte tutte le conversazioni. Oggi, se il pm, che è il dominus delle indagini, ordina di trascrivere però tutto, come avviene, e la polizia giudiziaria, che si rivela sempre più sottomessa, deve obbedire, mi pare evidente che ci sia un intento malizioso nell’intercettare. Perché nel momento in cui si depositano gli atti nel decreto di ordinanza cautelare finiscono anche intercettazioni non filtrate a monte. Se, poniamo ad esempio, intercetto Tizio dire “Questo è un Paese di merda!”, sia che egli si chiami Tizio Rossi o Tizio Berlusconi, ai fini penali che necessità c’è di trascrivere questo passaggio? Nessuna. Questo dev’essere l’approccio, altrimenti diventa voyeirismo mediatico-giudiziario. 

 

Cosa ne pensa dell’inasprimento delle pene previste nel ddl Alfano per chi rivela atti di indagini segreti, compresi i cronisti?

Il testo attuale non va bene: perché fa una distinzione tra la pubblicazione delle intercettazioni e quella di altri atti d’indagini, che invece resterebbe sempre consentita in forma riassuntiva.  Ma che differenza c’è tra una intercettazione e le dichiarazioni di un teste che butta addosso all’indagato del fango, anche per fatti che non hanno alcuna rilevanza con i reati perseguiti? Questa differenziazione è stata fatta sull’onta emotiva del momento, ma finisce per tutelare vip e politici, non per cambiare il sistema. Tutto ciò che non rientra prima della fase di discovery (il momento in cui anche l’indagato prende conoscenza degli elementi raccolti contro di lui) va filtrato da una terza persona, per esempio il Gip. Secondo me questa non è una legge bavaglio, è solo fatta male. Chi parla di legge bavaglio dimentica che la norma che preclude la pubblicazione di atti di indagine esiste da sempre. Ma non è applicata quasi mai, perché gli uffici giudiziari non sono ben organizzati. 

 

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