Israele vince sul campo, ma sul piano politico è il trionfo di Iran e Russia

Di Rodolfo Casadei
20 Novembre 2023
La guerra in Terra Santa ha fatto saltare l’avvicinamento tra Riyadh e Gerusalemme e compattato il mondo musulmano contro l’Occidente, obiettivo del regime degli ayatollah. Ne esce rafforzato anche Putin
Vladimir Putin, Ebrahim Raisi e Recep Tayyip Erdogan, presidenti rispettivamente di Russia, Iran e Turchia, durante in vertice a Teheran nel 2022
Vladimir Putin, Ebrahim Raisi e Recep Tayyip Erdogan, presidenti rispettivamente di Russia, Iran e Turchia, durante in vertice a Teheran nel 2022 (foto Ansa)

Com’era scontato, la guerra sul campo fra Israele e Hamas vede vittorioso lo Stato ebraico. Ma la vittoria politica nel nuovo episodio dell’eterno conflitto mediorientale va all’Iran e alla Russia. Alla vittoria militare di Israele corrisponde la sconfitta politica degli Stati Uniti, ovvero del fronte occidentale.

Tehran ha ottenuto ciò che voleva e forse addirittura di più: la normalizzazione dei rapporti fra Riyadh e Gerusalemme è rimandata alle calende greche, l’Arabia Saudita e i paesi arabi che avevano aderito agli Accordi di Abramo tornano a integrare il fronte musulmano che riafferma la “centralità della causa palestinese” e il diritto (in linea di principio) dei profughi palestinesi a tornare nelle terre da cui si allontanarono o furono allontanati nel 1948 e anni seguenti.

Ricomposte le fratture fra sunniti e sciiti

All’indomani del summit congiunto di Lega araba e Oci (Organizzazione della conferenza islamica), tutte le potenze islamiche già in competizione tra loro e diversamente posizionate nello scacchiere delle alleanze internazionali (Arabia Saudita, Iran, Turchia, eccetera) si ritrovano allineate nella condanna non solo delle politiche di Israele, ma dell’intero Occidente con toni da scontro di civiltà. Le fratture fra sunniti e sciiti, visibilissime in Libano, Siria, Iraq e Yemen, appaiono ricomposte nell’unanimità del sostegno alla causa palestinese e nella polemica contro gli alleati di Israele.

Nella risoluzione finale si legge che gli Stati islamici «condannano il doppio standard nell’applicazione del diritto internazionale; avvertono che questa duplicità mina seriamente sia la credibilità dei paesi che proteggono Israele dall’applicazione del diritto internazionale e lo pongono al di sopra della legge, sia la credibilità dell’azione multilaterale, mettendo in luce la selettività nell’applicazione del sistema dei valori umanitari; e sottolineano che le posizioni dei paesi arabi e islamici saranno influenzate da tale doppio standard che porta a una spaccatura tra le civiltà e le culture».

La risoluzione ha pure deliberato la creazione da parte dei segretariati rispettivamente di Oci e Lega araba di due team legali per la raccolta di prove di crimini di guerra e crimini contro l’umanità israeliani a Gaza che verranno presentate alla Corte penale internazionale: evidentemente questo ostacolerà i rapporti con Israele dei paesi arabi e islamici che già intrattengono relazioni diplomatiche con Gerusalemme e arresterà i progressi di quelli che avevano avviato processi di avvicinamento.

Per israeliani e palestinesi non è mai stata questione di immagine

Tutto ciò va visto non tanto come una sconfitta politica di Israele, ma degli Stati Uniti e dei loro alleati. Gli osservatori che enfatizzano i danni di immagine che l’operazione militare a Gaza causerebbe a Israele, visto non più come vittima di un attacco terroristico ma come un’entità che si vendica infliggendo una punizione che coinvolge civili palestinesi innocenti, non colgono l’essenza della questione. Se c’è una cosa che 75 anni di conflitto israelo-palestinese avrebbe dovuto insegnare agli osservatori, è che né israeliani né palestinesi si preoccupano di quello che il resto del mondo pensa di loro. Le priorità assolute dei due rivali, alle quali tutto il resto era ed è tuttora subordinato, sono sempre state da parte israeliana allontanare qualunque minaccia alla sicurezza dei propri confini, da parte palestinese alimentare un clima di insicurezza in Israele perché la partita della propria causa restasse aperta.

Guerre, terrorismo, attacchi contro i civili, muri, insediamenti di coloni, Intifade, eccetera sono sempre stati funzionali alle rispettive priorità, e sono temporaneamente cessati solo quando non risultavano più tatticamente utili, non certo per problemi di immagine internazionale. Paradossalmente Israele e i palestinesi escono ugualmente vincitori dal punto di vista politico dalle stragi dell’ottobre-novembre 2023 perché confortati nelle loro rispettive priorità. Chi accusa Israele e palestinesi di perseguire politiche di corto respiro centrate – asimmetricamente – sulla sola forza non si rende conto che nel contesto di un conflitto insolubile come quello israelo-palestinese il breve termine coincide col lungo termine: la ricerca della sicurezza e il boicottaggio della sicurezza interpretano sia il breve che il lungo termine.

La sconfitta degli Stati Uniti e dei loro alleati

Stati Uniti e alleati risultano sconfitti perché l’adesione dell’Arabia Saudita e di altri paesi arabi agli Accordi di Abramo era più nell’interesse dell’Occidente che dello stesso Israele, così come l’isolamento dell’Iran che ne sarebbe stato la conseguenza. Appaltare la sicurezza del Medio Oriente a un condominio israelo-arabo avrebbe consentito agli Stati Uniti di concentrare le forze sui due fronti aperti, quello con la Russia in Europa (Ucraina) e quello con la Cina in Asia (Taiwan).

Invece gli Stati Uniti non solo non possono disimpegnarsi dall’area in modo più brillante di quanto abbiano fatto in Afghanistan, ma sono costretti a dirottare sul posto forze militari e finanze che avrebbero voluto impiegare altrove: il 2 novembre la Camera dei rappresentanti ha approvato aiuti militari a Israele per 14,3 miliardi di dollari, ma ha rifiutato di stanziare aiuti, quattro volte maggiori, per l’Ucraina.

Le carte che può giocare la Russia

I benefici che la Russia trae dalla crisi non riguardano soltanto la distrazione di forze occidentali dal fronte ucraino, ma il rafforzamento della propria posizione negoziale in vista di un compromesso globale con Stati Uniti e alleati. Mosca, schieratasi pubblicamente a favore della causa palestinese nei termini dei comunicati dell’Oci e della Lega araba, giocherà la carta del parallelismo fra la crisi russo-ucraina e quella israelo-palestinese: se è occupazione quella russa della Crimea, del Donbass e di Mariupol, lo è anche quella israeliana, cioè americana, di Cisgiordania, alture del Golan, fattorie di Shebaa (Libano) e prossimamente frazioni della Striscia di Gaza.

Vladimir Putin può di nuovo presentarsi come il moderatore degli appetiti iraniani nella regione: finché la Russia partecipa alla protezione del regime di Assad, dal territorio della Siria non partiranno attacchi contro la sicurezza di Israele (né rappresaglie quando Israele o gli americani colpiscono basi, depositi e armi in transito di Hezbollah e delle milizie iraniane e filoiraniane su suolo siriano).

Il bottino di Teheran (a spese di Hamas)

L’Iran, per parte sua, ha speso la carta sunnita di Hamas ma conserva intatta la carta sciita di Hezbollah, che non è stato necessario finora gettare sul tavolo. Ha potuto pure trovare giustificazioni alla sua mai confessata aspirazione a produrre e possedere armi nucleari, a fronte dell’evocazione dell’arma atomica da parte di un ministro israeliano e della richiesta da parte del presidente turco Erdogan di un’inchiesta della Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) sul possesso non dichiarato di armi nucleari da parte di Israele. Tutto ciò senza sparare un colpo e senza subire perdite proprie, semplicemente sacrificando un asset arabo e sunnita (Hamas) a vantaggio di una strategia che è persiana e sciita.

@RodolfoCasadei

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