![Miracolo Milano. La città raccontata in un docufilm](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2024/12/milano-duomo-ansa-345x194.jpg)
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Il trascinamento della guerra tra Israele e Hamas iniziata il 7 ottobre scorso sta dividendo i Paesi arabi e musulmani, nonostante la condanna unanime degli attacchi e della richiesta di un cessate il fuoco e inaspettati riavvicinamenti tra potenze rivali come Arabia Saudita e Iran.
L’unità della Ummah musulmana, richiamata dagli stessi leader di Hamas nel loro appello per un jihad globale contro lo Stato di Israele, si è infranta alla prima proposta di un’azione realmente concreta, al di là degli slogan, l’11 novembre al vertice congiunto arabo-islamico della Lega araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC) di Riad, in Arabia Saudita.
Secondo diverse indiscrezioni stampa, durante il vertice congiunto Algeria e il Libano avevano proposto di tagliare le forniture di petrolio a Israele in risposta al suo attacco nella Striscia di Gaza; bloccare il trasferimento di equipaggiamenti militari statunitensi a Israele stoccati nelle basi in Medio Oriente; sospendere tutti i contatti diplomatici ed economici con lo Stato ebraico e fermare il traffico aereo israeliani sui cieli del Golfo.
Tutte queste richieste non sono state incluse nella dichiarazione finale firmata dai 57 Paesi partecipanti che si sono limitati a chiedere uno stop globale delle esportazioni di armi e munizioni allo Stato ebraico.
A bloccare la proposta estesa da Algeri e Beirut sono stati ovviamente i quattro Paesi arabi che hanno firmato gli Accordi di Abramo – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco – oltre a Egitto e Giordania, gli altri due Stati arabi ad avere rapporti con Israele. A sorpresa si sono uniti anche Mauritania (che dal 1999 al 2009 ha avuto relazioni diplomatiche con Tel Aviv), Gibuti e Arabia Saudita.
Proprio Riad, che ospitava il vertice e che poco prima del conflitto stava avviando un percorso di normalizzazione dei rapporti con Israele, sarebbe stata determinante per vanificare quella che sarebbe stata la prima azione concreta dei Paesi arabo-musulmani contro lo Stato di Israele.
La posizione di Riad potrebbe rappresentare un segnale della volontà del Paese del Golfo di scongiurare in tutti i modi non solo un allargamento del conflitto, ma anche conseguenze economiche imprevedibili che potrebbero minare il rinnovamento economico e culturale voluto dal giovane e controverso erede al trono saudita Mohammed bin Salman, rafforzando ovviamente il peso di storici rivali come l’Iran.
Il summit è stato caratterizzato dalla presenza di leader che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile vedere riuniti a Riad. Al vertice nella capitale saudita era infatti presente il presidente iraniano Ebrahim Raisi, alla sua prima visita in Arabia Saudita dopo l’accordo per il ripristino delle relazioni diplomatiche mediato dalla Cina. In quello che potrebbe apparire un messaggio diretto alle “deboli” posizioni dei Paesi del Golfo sulla questione palestinese, Raisi è sceso dal suo aereo indossando la kefiah, la tradizionale sciarpa palestinese, salutando i funzionari sauditi giunti all’aeroporto della capitale saudita per accoglierlo. A Riad era presente anche il presidente siriano Bashar al Assad – che deve il mantenimento del potere all’intervento di Russia e Iran nella guerra civile – che per la seconda volta ha partecipato a un vertice in Arabia Saudita dopo la riammissione della Siria in seno alla Lega araba il maggio scorso.
L’Arabia Saudita aveva già respinto in sede OPEC a metà ottobre l’idea di un embargo alle forniture di petrolio israeliane richiesta dall’Iran, mossa che si sarebbe rivelata più che altro simbolica che sostanziale. La più grande fonte di petrolio di Israele è il greggio CPC Blend di origine kazaka esportato attraverso il porto russo di Novorossiisk sul Mar Nero e Azeri Light, che viene spedito dal porto mediterraneo turco di Ceyhan.
Il lavoro degli otto Paesi arabi per contrastare azioni realmente concrete in risposta alla guerra in corso a Gaza sarebbe è stato ovviamente notato e accolto da Israele.
Nonostante non vi sia alcun accenno di cessate il fuoco o di miglioramento del conflitto, il ministero dell’Energia israeliano ha consentito alla compagnia petrolifera Chevron e ai partner che operano nel giacimento di gas offshore Tamar di riprendere le operazioni di produzione che erano state interrotte per motivi di sicurezza lo scorso 9 ottobre proprio a seguito dei timori di possibili sabotaggi e attacchi da parte di Hamas.
Lo scorso 11 ottobre le esportazioni israeliane verso l’Egitto erano state reindirizzate attraverso il gasdotto FAJR che attraversa la Giordania, altro Paese che dipende dalle forniture israeliane.
Con la chiusura di Tamar, Israele ha dovuto occasionalmente ricorrere a fonti di carburante più costose e ha anche deviato alcune forniture dal giacimento Leviathan, la cui produzione era stata destinata all’esportazione in Egitto che prima della guerra importava dallo Stato ebraico circa 800 milioni di piedi cubi (mcf) di gas al giorno (circa 22,6 milioni di metri cubi).
Anche il gasdotto del Mediterraneo orientale (EMG), che va da Ashkelon in Israele, appena a nord della Striscia di Gaza, ad Arish in Egitto, riprenderà probabilmente questa settimana, facendo nuovamente fluire a pieno regime il gas verso il Paese arabo e quindi consentire non solo di soddisfare il fabbisogno interno, ma anche di rilanciare le esportazioni di GNL verso l’Europa.
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