Ha già esposto in due Biennali di Venezia e all’ultima Biennale de L’Avana l’artista Flavio Favelli, che ha da poco inaugurato la sua prima personale turca, dal titolo Grape Juice, presso la Galata Rum Okulu di Istanbul fino al 14 giugno, una delle sedi più prestigiose dell’ultima Biennale d’arte contemporanea. Il progetto, di cui ci parla nell’intervista che gli abbiamo dedicato, è a cura di Vittorio Urbani ed è nato da un’idea di Cristina Cobianchi dell’Associazione AlbumArte di Roma, che ha invitato l’artista a vivere e lavorare un mese a Istanbul presso la residenza dell’Ambasciatore d’Italia in Turchia, Gianpaolo Scarante.
Flavio, in che modo l’esperienza di lavoro e di vita ad Istanbul ha influenzato il tuo percorso artistico?
Sono state solo uno spunto, un tema su cui misurarsi e lavorare. Diciamo che ho masticato e manipolato delle immagini, delle informazioni che ho trovato e cercato. Il tulipano di solito rosso, blu, azzurro e arancio diventa nero. E’ Istanbul che diventa Favelli e non il contrario. Ammesso che abbia un ruolo, l’artista interpreta quello che vede e sente, sta poi agli altri riuscire a guardare e possibilmente vedere.
Come è nata l’opera Grape Juice che dà il titolo alla mostra? E qual è la sua posizione all’interno dell’allestimento?
Grape Juice è un picco di un iceberg. E’ una questione psicologica, una lattina che contiene succo d’uva è una forzatura moderna, perchè il succo d’uva poco dopo fermenta e diventa alcolico. Il succo d’uva non esiste nella Bibbia, si parla solo di vino. Oggi in Turchia, il vino, uno degli alimenti forse più antichi del mondo, è un caso religioso e da queste parti quando si dice religioso significa politico, di costume. Grape Juice è un nome, un prodotto, è un artificio, è una pubblicità, ma anche un’idea e nemmeno tanto innocua. L’opera è una lattina aperta con il corpo appiattito con qualche intervento a smalto. Ma non l’ho esposta in mostra, è solo comparsa come immagine nella comunicazione, è una introduzione sospesa.
Evil Eye è una bottiglia originale di qualche anno fa della Coca Cola in edizione limitata plastificata da un film decorato con quello che noi chiamiamo l’Occhio di Allah o la Mano di Fatima. E’ un amuleto, scacciamalocchio molto popolare in Turchia, tanto che all’aeroporto Ataturk di Istanbul un grande occhio sul soffitto dell’atrio del controllo passaporti, controlla il flusso dei passeggeri. Siamo nel folclore pagano, come il corno anti jella napoletano, mi è sempre piaciuta questa confusione fra sacro e profano, l’occhio del male e l’occhio di Allah, immagini sovrapposte come il segno a forma di M sulla testa di certi gatti che sarebbe quello di Maria Vergine… Sulla bevanda più pagana, laica, straniera e moderna, la Coca Cola, c’è quindi un decoro tradizionale turco, sembra dirci usiamo lo stesso linguaggio… Sono forti contrasti, rosso con i cerchi blu e azzurri fatti a bollicine. Ho aggiunto una stella nera che sento elegante e rigorosa di un significato ambiguo. La stella nera, ben diversa dalla rossa, è la stella del mistero, con riflessi diversi. E’ struggente perchè provoca un disorientamento, tiene in scacco. Ha un equilibrio che logora.
Per rispondere alla domanda, non so cosa possa raccontare della Turchia, sicuramente racconta di me e di quello che sento e vedo nel suo contesto, ed essendo l’artista una specie di pontefice fra il visibile e il non visibile, Evil Eye è l’opera che può aggiungere un senso diverso. Posso dire, oggi, che Evil Eye è un preciso esempio di cosa per me è arte. In questo caso il mondo si divide in due: chi ne è ammaliato e chi no.