Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
È dal 12 febbraio 2012 che i “fucilieri di Marina” Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono finiti in un guaio giudiziario infinitamente più grande di loro. Quel giorno i due marò, con altri quattro colleghi, erano a bordo di una petroliera italiana, la Enrica Lexie. La nave incrociava al largo del Kerala, una regione sulla costa sud-occidentale dell’India, e i militari avrebbero sparato contro un peschereccio, scambiandolo erroneamente per una delle tante imbarcazioni di pirati che battono l’area. Uccidendo due innocenti.
Sono trascorsi tre anni e sette mesi, in mezzo è accaduto di tutto: i marò sono stati in prigione per qualche mese, poi ospitati nell’ambasciata italiana; il governo italiano ha consegnato 300 mila dollari alle famiglie dei pescatori; nel 2013 i due sono tornati in patria per votare, poi sono stati «trattenuti» dal governo Monti, scatenando ira e ritorsioni commerciali dell’India; contraddicendosi, il governo ha poi fatto rientrare i marò in India e il ministro degli Esteri, Terzi di Sant’Agata, si è dimesso per polemica; nell’agosto 2014 Latorre, colto da ischemia, è tornato in Italia per curarsi e la sua convalescenza a casa è stata prorogata due volte.
Quel che non è mai accaduto è che a Delhi il processo decollasse. Secondo gli avvocati italiani, ai marò non è stata ancora contestata alcuna accusa specifica: mancherebbe addirittura la configurazione del reato. Con una lentezza superiore perfino a quella della giustizia italiana, i giudici indiani hanno fatto qualche udienzina e disposto qualche stanca perizia. Ma del giudizio vero e proprio non s’è visto nulla. Tre anni e sette mesi, più di 1.300 giorni, ovvero 31.300 ore. Trascorsi invano.
Tardivamente, nel maggio scorso, l’Italia si è accorta che avrebbe potuto chiedere un arbitrato al Tribunale internazionale per il diritto del mare di Amburgo, un’istituzione giuridica che dirime importanti vertenze “marittime” tra Stati. Il governo di Roma ha finalmente posto a quel Tribunale una questione più che sensata: poiché i fatti sono accaduti in acque internazionali, ha chiesto di togliere il caso all’India e di riportare a casa i due accusati. Il 24 agosto scorso il Tribunale di Amburgo ha risposto con un colpo al cerchio e uno alla botte: l’India deve sospendere ogni procedura, ma i marò restano in carico a Delhi. Il caso passa ora sotto la giurisdizione della Corte arbitrale dell’Aja.
Il giallo dell’arma del delitto
Bene. In tutto questo tempo, trascorso tra infinite polemiche (pro-marò da una parte, antimilitaristi dall’altra), nessuno sembra essersi posto un problema piccolo-piccolo. Questo: ma quel 12 febbraio di tre anni e sette mesi fa hanno davvero sparato, Latorre e Girone? Sono stati loro a uccidere i due poveri pescatori del Kerala? L’unico che si è fatto la domanda è Toni Capuozzo, inviato dei tg Mediaset e autore del saggio Il segreto dei marò (Mursia, 280 pagine, 16 euro).
Il giornalista scrive che «il 26 febbraio 2012 la polizia di Kochi ha sequestrato (a bordo della Enrica Lexie, ndr) le armi dei fucilieri del San Marco: sei fucili Beretta Ar 70/90 e due mitragliatrici Fn Minimi, tutte calibro 5,56 mm. Qualcosa però non tornava, se i proiettili che hanno ucciso i due pescatori, secondo le misure del perito autoptico, sono calibro 7,62. (…) Il 1° aprile la polizia torna sulla Lexie: “Si sospetta che una delle armi utilizzate debba ancora essere sequestrata” scrive il Times of India. Ma a bordo non ci sono altre armi. È in questo momento che qualcuno, tra gli inquirenti, decide che i proiettili fatali devono per forza coincidere con le armi dei fucilieri di Marina, e non possono non essere di calibro 5,56».
Domandina banale: e se a uccidere i pescatori non fossero stati i due marò?