Che cosa c’è di peggio del venire rapiti da un feroce dittatore ed essere costretti a vivere sotto uno dei regimi più sanguinari al mondo? È quello che è successo a Choi Eun-hee, star assoluta del cinema coreano, paragonabile per fama a Greta Garbo, al centro suo malgrado di una delle spy story più incredibili mai avvenute e riprodotta sul grande schermo nel 2016 dal film Gli amanti e il despota. Choi, malata da tempo, è morta ieri all’età di 91 anni mentre si sottoponeva a una dialisi. Nonostante abbia recitato in oltre 100 film, vincendo un premio dietro l’altro, l’attrice è diventata famosa a livello internazionale soprattutto in seguito al rapimento di cui è stata vittima nel 1978 per mano di Kim Jong-il, che presto sarebbe diventato dittatore della Corea del Nord, insieme all’ex marito Shin Sang-ok, considerato il “re del cinema sudcoreano”. Per otto anni i due furono costretti a girare e interpretare 17 film per la Corea del Nord, fino al 1986, quando approfittando di un viaggio promozionale a Vienna, riuscirono a scappare all’ambasciata americana. Ma la storia merita di essere raccontata dal principio.
È NATA UNA STELLA. Choi nacque a Gwanju, nella provincia di Gyeonggi, nel 1926 e già dalla sua prima interpretazione, a soli 21 anni, tutti si resero conto che era nata una stella. In poco tempo divenne la celebrità assoluta del cinema coreano, dominando la scena insieme al produttore cinematografico e regista Shin Sang-ok. I due, oltre a guidare la major Shin Film, si innamorarono e si sposarono nel 1953, adottando due bambini. Il loro rapporto si interruppe però con il divorzio nel 1976, quando Choi scoprì che il marito la tradiva. La separazione avvenne proprio mentre la Shin Film andava in bancarotta, in seguito alla decisione del regime sudcoreano di revocargli la licenza a produrre film, e Choi, che per due anni si rifiutò di partecipare a qualsiasi film, riuscì a malapena a salvare dal vortice del fallimento la sua scuola di recitazione Anyang.
L’AGENTE SEGRETO. È in questo momento di estrema difficoltà e fragilità che, nel 1977, un uomo di nome Wang Dong-il fece visita all’attrice. L’uomo disse di essere un produttore di Hong Kong e di avere aperto una scuola di recitazione, che avrebbe potuto affiliarsi con Anyang, magari proprio sotto la direzione di Choi. Dopo averle presentato rapidamente la sua idea, Wang la invitò al Film Festival di Hong Kong per discutere ulteriormente faccia a faccia il progetto e per mostrarle la scuola. La star accettò con entusiasmo: non poteva sapere che Wang era in realtà un agente segreto della Corea del Nord, che non sapeva distinguere un ciak da una cinepresa, ma che aveva ricevuto ordini precisi di rapirla da Kim Jong-il, figlio dell’allora dittatore e padre della patria, Kim Il-sung.
IL PRESENTIMENTO. Per un fortunato caso, Choi si ritrovò in seguito costretta a declinare l’invito. Avrebbe potuto salvarsi ma Wang tornò alla carica e le inviò una finta sceneggiatura, chiedendole di dirigere il film e offrendole un cachet così alto che avrebbe risolto tutti i suoi problemi finanziari. Choi accettò ma prima di partire per Hong Kong, come per un presentimento, telefonò all’ex marito Shin. Lui, che in quel periodo andava e veniva dagli Stati Uniti nella vana speranza di tornare sulla cresta dell’onda, cercò di dissuaderla: «Non è strano che i cinesi, con tutti i registi famosi che hanno, chiedano a te di girare un film, che non sei neanche regista?». L’argomento era sensato ma Choi pensava che Shin fosse semplicemente geloso e partì ugualmente.
DOVE VA LA NAVE? L’11 gennaio 1978 Choi atterrò a Hong Kong, ricevuta da Wang, che riuscì con l’inganno e l’aiuto di due complici a farla salire su un battello nella baia di Hong Kong il 14 gennaio. Solo quando l’attrice si rese conto che la nave si stava dirigendo al largo, capì che c’era qualcosa di strano. «Dove diavolo sta andando questa barca?», chiese all’equipaggio. «Madame Choi», le rispose un uomo. «Stiamo andando dal Grande leader, compagno generale Kim Il-sung». In un attimo Choi comprese tutto e cercò di suicidarsi, saltando all’istante giù dalla nave, ma venne fermata in tempo e rinchiusa nella stiva.
«NOIOSI FILM DI PROPAGANDA». Il rapimento in realtà era stato orchestrato da Kim Jong-il, che sarebbe salito al potere solo nel 1994 e che è sempre stato un grande amante del cinema, soprattutto hollywoodiano. Come avrebbe spiegato Choi una volta liberata, il Caro leader voleva innalzare il livello del cinema nordcoreano che all’epoca, si lamentava grottescamente Kim, produceva solo «noiosi film di propaganda». Kim oltretutto non si capacitava del perché tutti girassero solo film di propaganda, fingendo di non sapere che chiunque non obbediva agli ordini del regime veniva spedito nei campi di concentramento. Il dittatore fece rapire sei mesi dopo anche l’ex marito di Choi, Shin, che nel frattempo aveva cominciato a cercarla, essendo stato a torto sospettato di essere l’artefice della sua sparizione.
PULGASARI. Così cominciò l’avventura nordcoreana dei due ex coniugi, che vennero costretti a prendere visione della collezione cinematografica di Kim (oltre 15mila titoli) e a redigere una revisione critica di quattro film al giorno. Durante il sequestro, girarono insieme 17 pellicole, tra le quali un polpettone basato su una scenografia scritta da Kim Il-sung e una riedizione in salsa nordcoreana del colossal Godzilla dal titolo Pulgasari.
LA FUGA. Quello che avvenne in quegli anni è documentato in modo certo perché la coppia registrò di nascosto molte delle conversazioni che ebbero con Kim Jong-il. Per quanto rischioso, i due agirono così perché temevano che, se mai fossero riusciti a scappare, nessuno avrebbe creduto alla loro storia. La situazione tra le due Coree, che non hanno mai firmato la pace dopo la guerra ma solo un armistizio, era tesissima; Choi e Shin non volevano essere incriminati come disertori o sostenitori del regime comunista. L’occasione per fuggire si presentò nel 1986, quando Kim diede loro il permesso di recarsi a Vienna per promuovere il cinema nordcoreano. Una volta raggiunta la capitale austriaca, i due scapparono all’ambasciata americana e chiesero asilo politico.
UNA VITA DA FILM. Pyongyang li accusò subito di essersi inventati tutto: secondo il regime i due ammiravano la Corea del Nord e si erano recati volontariamente nel Paese. Se ora cercavano di scappare, era solo perché volevano sfruttare la storia del rapimento per arricchirsi. Dopo essere stati sottoposti a un’attenta indagine della Cia, Choi e Shin poterono tornare in libertà. Entrambi andarono a vivere per qualche anno negli Stati Uniti. Il regista riuscì a girare ancora un film negli Usa, prima di tornare in Corea del Sud nel 1994, dove morì nel 2004 di epatite. Nel 2006, il presidente Roh lo insignì con la Medaglia d’oro alla cultura, il più alto premio che un’artista possa ricevere nel Paese. Choi invece, dopo essere ritornata a Seul, non recitò più, anche se ricevette diversi premi alla carriera. La loro disavventura è stata raccontata nel dettaglio nel 2015 in una biografia pubblicata da Paul Fischer con il titolo: A Kim Jong-Il Production: The Extraordinary True Story of a Kidnapped Filmmaker.
LA CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO. Un aspetto poco conosciuto di questa incredibile storia riguarda la conversione al cattolicesimo di Choi, che maturò in Corea del Nord, dopo l’incontro con un altro prigioniero cattolico, e che venne battezzata una volta fuggita con il nuovo nome di Teresa. In una delle sue ultime interviste, l’attrice disse: «Sogno spesso Shin. Sono sicura che si trova in Paradiso, dove continua a girare film. Ha reso la mia vita un po’ difficile, quando ho scoperto che mi tradiva avrei voluto ucciderlo, ma non ha mai commesso peccati gravi. Se tornassi indietro, però, non penso che lo risposerei. Questo anello che vede e che porto al dito è un rosario. Non passa giorno senza che reciti il rosario per la salute e la pace di tutte le persone che ho conosciuto in vita». Anche di Kim Jong-il? «Non ho bisogno di perdonarlo, perché l’ho già fatto».