Michael Bibeau e Martin Rouleau, i due terroristi che l’altro giorno e il 20 ottobre hanno compiuto attentati in Canada, sembrano l’incarnazione dell’identikit dei nuovi jihadisti descritto dall’islamista Lorenzo Vidino, nel suo ebook edito da Ispi Il jihadismo autoctono in Italia. «Dai primissimi dati che abbiamo a disposizione tramite i media, sembrano ritrarre il profilo del jihadismo autoctono che ho descritto: soprattutto Bibeau».
Che caratteristiche rintraccia in comune tra i due e gli altri jihadisti che hanno colpito in Occidente o che, partiti dall’Europa, si sono arruolati nell’Isis?
Sono tutti soggetti che vivono a casa propria. Si tratta di immigrati di seconda generazione, o di occidentali convertiti come Bibeau. Alcuni hanno contatti attivi, ma molti altri no, in ogni caso restano indipendenti dal punto di vista operativo. Adottano l’ideologia jihadista e poi decidono di compiere un attentato nelle modalità più semplici per loro e a portata di mano. Ricordiamo che le modalità di questi attentati sono già in uso da anni. Nel 2001 l’imbianchino Domenico Quaranta, un agrigentino che si era convertito all’islam mentre si trovava in carcere, durante l’invasione Usa in Afghanistan, organizzò un attentato molto primitivo facendo esplodere una bombola davanti al Templio della Vittoria, lasciando un lenzuolo con la scritta «Giù le mani dall’islam». A questo, seguirono altri due attentati del genere ad Agrigento, e poi un altro nella metropolitana milanese del duomo: alla fine Quaranta fu arrestato. Era un lupo solitario, più o meno come Mohamed Game che si è fatto saltare davanti alla caserma di Milano. Tutti e due ricordano le modalità usate in Canada negli ultimi giorni.

Sia a Rouleau che a Bibeau le autorità avevano ritirato i passaporti, perché entrambi erano in partenza per la Siria dove volevano combattere. Perché non sono stati arrestati?
L’intelligence può fare molto poco. I dirigenti della polizia canadese oggi dicono esattamente questo: negli Stati democratici ci sono dei principi di diritto davanti ai quali l’intelligence si deve fermare. Ciò avviene anche in Italia o in altri paesi europei: se le intelligence sono a conoscenza di soggetti che si attivano per andare a combattere in Siria, non li possono arrestare perché il partire per un altro paese, compresa la Siria, di per sé non costituisce un reato. Si può punire qualcuno con l’arresto solo se si dimostra che è legato a questi gruppi terroristici. In Italia, ad esempio, per ora la legge consente di intervenire solo su chi recluta, ma non su chi è stato reclutato. Si possono applicare in Occidente solo misure amministrative come la revoca del passaporto, ma per arrestare sono giustamente necessarie prove da presentare anche davanti ad un giudice. È l’arma a doppio taglio di un paese di diritto e democratico. Nessuno può stravolgere queste regole e non si possono monitorare fisicamente o nello spazio virtuale centinaia o migliaia di soggetti: l’intelligence si trova a dover selezionare i soggetti da attenzionare, in base alle loro frequentazioni o ai loro modi di fare.
In Gran Bretagna giorni fa sono stati arrestati due soggetti, che venivano monitorati e intercettati da tempo, perché sulla loro auto trasportavano armi con cui volevano compiere un attentato. Questo tipo di arresti è solo fortuito o è replicabile?
Sì, è una cosa certamente replicabile e in questo momento si effettuano decine di arresti che hanno permesso di prevenire attentati. Ma, d’altra parte, ricordo che abbiamo la maggior parte dei soggetti che tornano dal campo di battaglia ancora a piede libero. In Belgio sono tornati almeno 95 ex jihadisti. Ma solo una decina di queste persone sono stati arrestate. La difficoltà è dimostrare che in Siria queste persone hanno combattuto, e dimostrarlo con prove sufficienti da un punto di vista legale. Avere simpatie jihadiste o andare in Siria di per sé non è un reato. Così ci troviamo davanti al via vai di molti soggetti e le autorità rimangono impotenti.
Cosa può fare l’intelligence occidentale, o i governi, per mettersi al sicuro dagli attentati?
Ci sono una serie di misure che vengono discusse. Non esiste un unico strumento. Serve maggiore cooperazione, l’intelligence sharing: è chiaro che paesi come la Turchia o la Siria di Assad hanno informazioni che possono aiutare l’Occidente, e ottenere queste informazioni ci può aiutare. In secondo luogo, serve aggiornare gli strumenti normativi: in Italia va introdotto il reato anche per chi è reclutato. In terzo luogo, secondo me bisognerebbe togliere il passaporto del tutto a questi soggetti che partono, lasciarli senza una patria. Ma il problema sussiste. Inevitabilmente.
Quali paesi secondo lei, se ha avuto modo di consultare le sue fonti di intelligence, oggi restano più a rischio?
In Occidente restano a rischio soprattutto paesi come Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Ma i soggetti particolarmente radicalizzati possono trovarsi dappertutto. È un terrorismo talmente spontaneo, poco strategico e fatto da schegge impazzite, che è di difficile prevenzione.